Era primavera, in pieno allarme Covid. Proposi al giornale di raccontare quella Milano deserta, notturna, mai vista. Partii da piazza Duomo, alle undici di sera: immensa e vuota, come col fiato sospeso. Alzai gli occhi alle guglie, mi rassicurarono: i santi e i martiri lassù, almeno loro, vegliavano.
Lucente il mosaico dell’Ottagono, in Galleria. Ma, qualcosa di strano: mi fermai. Era il rumore dei miei stessi passi. Mai avevo sentito i miei passi, nel cuore di Milano. E tutti quei negozi con le vetrine raggianti, quasi a promettere: tornerà, la vita. Dentro, però, solo manichini.
Finalmente, sotto ai portici di Vittorio Emanuele, due uomini. Due guardie giurate in divisa davanti a un portone. Istintivamente mi diressi verso di loro, come calamitata: così contenta, di incontrare delle persone. Anche loro, l’accento di Napoli, le facce stanche, sembrarono lieti di vedermi. Stavano sorseggiando il caffè di una macchinetta dell’ufficio che sorvegliavano. «Ne vuole uno?» mi chiese il primo. «Lei, quando crede che finirà?», mi domandò l’altro, malinconico.
Quante volte ho detestato il caos e il rumore, nel centro di Milano. Ma il silenzio, nelle notti del Covid, era terribile. Quei due sconosciuti, quella notte, un dono. Quel caffè, indimenticabile.
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