Il comitato di accoglienza andò oltre le mie speranze più folli. In quella valle di alberi da frutto e percorsa da fiumi pescosi avremmo potuto imbatterci in animali feroci: il paese dove scorre il miele è anche quello dell’orso bruno. E invece, giunti sul primo sentiero, incontrammo uomini, e uomini piuttosto civilizzati. Indossavano stoffe simili a code di pavone: sul tessuto marmorizzato erano ricamati occhi, bocche e orecchi. Ma ancor più straordinario fu il fatto che si rivolsero a noi in uno spagnolo impeccabile (sebbene col loro accento sembravano provar piacere a triplicare le consonanti). E fu per dirci subito: «Bbbenvenuti qqquelli che vvvengono a ppportarccci Ddddio!».
Il lettore può immaginare l’immenso sorriso che attraversò il mio volto, le braccia allargate che dilatarono il mio corpo, e anche, purtroppo, il prurito alle mie mani per la voglia di schiaffeggiare fratel Ugo. Costui, infatti, aveva deciso di inalberare una faccia gentile quanto quella di un pitbull pronto a mordere. E, come se la vista della sua mascella sul punto di balzar fuori dal colletto romano non fosse abbastanza chiara, rispose all’incredibile benvenuto con un urlaccio di una cortesia molto discutibile: «Dov’è quella dannata scimmia? Ha rubato il mio rosario!».
Il mio sorriso mutò in una smorfia ballerina, con la gioia che lottava contro l’esasperazione. Di fronte all’insperata accoglienza che ci era stata fatta, Ugo avrebbe almeno potuto fingere, lasciar credere che tra noi ci fosse intesa, rimandare il momento in cui mostrare il nostro attaccamento alle cose materiali. Altrimenti, come potrebbe il dono di Dio essere credibile?... Grazie al cielo, i nostri ospiti ignorarono l’aria poco amichevole del mio compagno e, sempre con grande gentilezza, ci invitarono a seguirli dopo averci messo al collo una ghirlanda di fiori. Fratel Ugo sembrava un incrocio tra un bulldog e una hawaiana.
La città dei Barbelioti (tale era il nome di quell’etnia) era una specie di Babele orizzontale: niente in altezza, ma tante case basse dai colori screziati. E sempre, dovunque, sui muri, sui pali, sui vestiti, il disegno di occhi, orecchi e bocche. Anche sui lastroni di pietra della strada quale stavamo avanzando in processione, c’erano incisi a intervalli regolari visi con ogni tipo di espressione, e, dato che non sapevo se era permesso calpestarli, desideroso di mostrare il mio rispetto per i costumi del luogo, avevo un passo esitante e maldestro. Per essere un degno testimone dell’amore, e per compensare la brutta faccia del mio compagno, feci mostra di un’espressione di pace e di felicità degna di una pubblicità di dentifrici.
La popolazione della città faceva due ali, e ci acclamava agitando palme e ripetendo: «Vvviva i ppportatori del DDDio nnnuovo!» Spontaneamente mi voltai verso fratel Ugo. Anche a lui doveva venire in mente il paragone con l’entrata gloriosa di Cristo a Gerusalemme. E infatti anche lui stava pensando a quell’episodio del vangelo, ma ricordandosi soprattutto che la folla ne avrebbe ben presto chiesto la crocifissione. La parte bulldog dell’incrocio aveva ancora nettamente la meglio.
Aumentando lo sforzo per manifestare quanto fossi pieno di gratitudine per quegli evviva, ma anche a causa del complicato percorso che mi imponevo per evitare di calpestare le facce per terra, un piede si impuntò contro una disuguaglianza della pavimentazione e inciampai. Molto rapidamente ritrovai il mio equilibrio e il mio sorriso, come se niente fosse accaduto. Ma la processione si fermò e la folla tacque. Avevo commesso un sacrilegio? Gli sguardi andavano e venivano tra la mia persona e i lastroni del mio inciampo.
Senza indugio, tre operai saltarono fuori della folla, si chinarono sulla pietra ed estrassero gli attrezzi per scolpirla e dipingerla. Dopo due minuti di attesa, si scostarono: sulla carreggiata c’era un nuovo viso. Riconobbi le sue labbra dal sorriso stolido. Era l’attore della pubblicità per dentifrici… Mi rassicurai tuttavia dicendomi che mi era toccata la sorte delle star hollywoodiane che lasciano su un marciapiede le impronte di mani e piedi. Eravamo ripartiti tra le acclamazioni e stavo avendo un certo successo personale. I bambini mi sorridevano a loro volta con una certa perfezione pubblicitaria.
Fummo condotti nel salone di un edificio più lungo e più piatto degli altri. Le sue colonne erano degli atlanti appena sgrossati, le sue travi, cariatidi abbozzate; gli stessi mobili erano lavorati con figure metà umane e metà bestiali. Un capo si era seduto su un trono a forma di donna accovacciata – a meno che non fosse un rospo. Era pronto ad ascoltarci.
Fratel Ugo, ahimè, stava discutendo con un subalterno per il recupero del suo rosario. Solo io stavo svolgendo il nostro compito diligentemente, e, grazie alla mia carità molto visibile, ero riuscito a guadagnare l’attenzione di tutti. Mi preparavo dunque a predicare quando, all’improvviso, gli ascoltatori si spostarono e si accalcarono intorno a Ugo come moscerini intorno ad un frutto maturo. Da dove gli veniva questo improvviso carisma? Aveva tirato fuori le immaginette sacre più brutte che si possano scovare nelle botteghe di Lourdes. Ed ecco che tutti lo ammiravano, malgrado la sua bocca astiosa, e io ero rimasto solo con un sorriso più raggelato di quello che era stato fissato nella pietra.
(6, continua. Traduzione di Ugo Moschella)
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