Non fermarti, provaci. Anche se sembra che una tigre ti abbia morsicato la coscia. «Non devi farlo per forza Derek», gli dice papà. «Devo farlo, devo arrivare in fondo», gli risponde lui. «Allora mettimi un braccio sopra le spalle, lo faremo insieme…».
È il 3 agosto 1992, fa un caldo africano a Barcellona quando parte la semifinale dei 400 metri. Derek Redmond, inglese, è il favorito. Inizia forte, la prima curva in pista è una pennellata. Poi il bicipite femorale si strappa come un foglio di carta velina. Un dolore immenso. Derek crolla. Mentre la gara finisce, lui si rialza: il traguardo è lontano. Ma è un’Olimpiade, cavolo. Non può finire così. E allora, forza: saltella su un piede solo, il sinistro, ricaccia indietro le lacrime, il traguardo è dall’altra parte della pista ma lui deve arrivarci. La gente sugli spalti prima ammutolisce, poi applaude come si può applaudire solo chi soffre. Dalla tribuna scende un uomo, entra in pista, la sicurezza non riesce a fermarlo. Ha un cappellino in testa con la scritta «Just do it», fallo e basta. Si chiama Jim, è suo padre. Lo abbraccia, gli parla, capisce che non si fermerà. Allora lo aiuta ad arrivare in fondo. Padre e figlio tagliano il traguardo insieme, abbracciati, stravolti. Ultimi e primi, senza un perché diverso dalla voglia di dimostrare che un vincente è un uomo che non è capace di arrendersi.
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