Dazi a mezzo mondo, tagli con l’accetta alla spesa pubblica, minacce di annessioni o di abbandono di storici alleati. Tutti ci chiediamo: quanto può tirare la corda Donald Trump? Il copione, drammaticamente molto cinematografico, è tutto da scoprire. Trattandosi però di realtà e non di fiction, deve fare i conti con alcuni dati fattuali che non possono essere cancellati a suon di slogan.
Tra questi ce n’è uno che pesa più degli altri, e sono i 36.200 miliardi di dollari di debito pubblico che grava sulla testa degli Stati Uniti, una cifra che vale oltre il 120% del Pil. Meno di altri, Italia compresa, ma ben più di quella soglia di guardia che consiglierebbe massima cautela nel fare o anche solo nel dire. Per capire:
il maxi piano di investimenti da 500 miliardi che si appresta a varare il nuovo governo tedesco, vincendo un tabù rigorista tipico dalle parti di Berlino, non dovrebbe portare il debito pubblico tedesco oltre l’80% del suo Pil entro il 2029.
La questione è tecnicamente molto più complessa, ma una conferma del fatto che lo spazio di manovra per Trump e la sua amministrazione sia tutt’altro illimitato arriva dagli interessi che Washington deve offrire sui titoli di Stato americani, i “Treasury”. Nei fatti si tratta del prezzo che ogni Stato deve pagare sul mercato per convincere gli investitori a fidarsi della propria capacità di rimborsare i suoi crediti: quanto più è alto, tanto più elevato è il quoziente di rischio che porta con sé. I dati di ieri ci dicono che gli Stati Uniti attualmente offrono rendimenti medi sui titoli decennali pari al 4,32%, molto più della Germania (che proprio per le spese in vista è comunque salita ai massimi degli ultimi anni, intorno al 2,9%), della Francia (3,56%) o dell’Italia (3,97%), negli ultimi mesi più stabile degli altri e dunque capace di ridurre la storica distanza (che è lo “spread”). A incidere su questi valori c’è una molteplicità di fattori, ma il responso è inequivocabile: gli Stati Uniti non sono più quelli di una volta, quando cioè – “armati” di una valuta leader indiscussa come il dollaro e di fondamentali da primi della classe – erano considerati l’arbitro dell’economia globale, capace di fare il brutto e il cattivo tempo. Se anche la potenza americana è tornata con i piedi per terra, ecco che tutto può succedere. Compreso quanto paventato in settimana da Ray Dalio, investitore tra i più spregiudicati ma anche considerati sul mercato: per il finanziere, il primo a pronosticare gli impatti del Covid e delle recenti crisi, non è affatto escluso uno “shock” del debito americano. Troppa offerta a fronte di una domanda in calo, ha previsto Dalio, con conseguenze che si preannunciano – appunto – scioccanti. Lo scenario peggiore è quello di un default, un “fallimento”, difficilmente prevedibile e sicuramente indigeribile per i mercati globali. Ma ci sono anche varianti più soft, come la necessità di una ristrutturazione o le pressioni su Paesi terzi perché acquistino quote extra di debito americano.
Scenari estremi, certo. Ma in linea con quella forma di “eccezionalismo” di cui si sta rendendo interprete Trump. Che, un domani, potrebbe aver bisogno di chi oggi è bersaglio delle sue intemerate: a partire dall’Europa, che da un paio d’anni ha superato Cina e Giappone nella classifica dei maggiori detentori del debito americano (quasi il 10%). Probabile che sia la prima porta a cui la Casa Bianca dovrà bussare quando avrà bisogno di liquidità extra.
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