Un poeta ha sempre troppe parole nel suo vocabolario, un pittore troppi colori nella sua tavolozza, un musicista troppe note sulla sua tastiera.
Così dichiarava lo scrittore francese Jean Cocteau nel suo Le coq et l'Arlequin (1918) registrando un fenomeno che è sperimentato dagli artisti. Essi hanno di fronte a sé la vastità del vocabolario, lo spettro variegato dei colori, l'infinita combinazione delle note e devono far nascere la loro opera da una scelta. Il genio non è colui che accumula ma colui che seleziona e toglie: un nostro scrittore famoso, Italo Calvino, ricordava che l'arte deve sempre modellarsi sull'opera dello scultore che per creare deve appunto togliere materiale dal blocco informe di marmo che ha di fronte.
Noi spostiamo l'accento su quel "troppo" che è un po' la sigla di questi nostri tempi. Eccesso di parole, eccesso di immagini, eccesso di suoni e di rumori: immersi in questa valanga, perdiamo il gusto della sobrietà, dell'essenzialità, dell'incisività. A tavola ci abbuffiamo, in casa siamo inondati dalle voci e dalle figure della televisione, fuori siamo travolti dal fracasso e dalla chiacchiera. Si dice che sul tempio a Delfi ci fosse la scritta greca medén ágan, che i latini hanno trasformato nella formula Ne quid nimis, ossia non ci sia un troppo in alcuna cosa o azione. Il non esagerare nell'ostentazione di sé, nel possesso, nell'arroganza e così via è una scelta che forse ci isola ma - non dimentichiamolo - l'avverbio "troppo" ha dato origine alla parola "truppa" e "intrupparsi" in un gregge ottuso non è una scelta elogiativa della persona.
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