TRE DITA CONTRO DI NOI
La nostra natura è incline a vedere solo il male dell'avversario, ad attribuirgli sempre il male, forse anche quello che non c'è. Il male che vediamo in lui dipende spesso dal nostro modo affrettato e meschino di vedere l'uomo.
«Quando vedo un uomo che sbaglia, mi dico che io pure ho sbagliato; quando vedo un uomo sensuale, mi dico: lo fui anch'io un tempo, e così mi sento affine a ciascuno nel mondo». È sempre Gandhi a parlare in questi che sono stati raccolti come i suoi «pensieri», una serie spesso emozionante di brevi e semplici riflessioni. Qui si mette
a fuoco un vizio comune, quello del giudicare gli altri con ferocia, soprattutto quando si tratta di persone a noi antipatiche o considerate come avversarie. Ci sono talora in noi alcune faziosità nel definire un'altra persona così palesi da renderci persino ridicoli, tanto è il furore e l'eccesso con cui liquidiamo chi ci è di ostacolo o semplicemente ci risulta odioso.
Aveva ragione Gesù quando definiva l'occhio «la lucerna del corpo»: se è offuscato, vede tutto l'orizzonte come tenebroso, ma non perché ogni cosa sia oscura, bensì solo perché la nostra visione è coperta da uno schermo opaco (Matteo 6, 22-23). Ecco, allora, un grande esercizio da compiere sulla scia di un altro appello di Cristo: «Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati» (Luca 6, 37). E se vediamo nell'altro uno sgorbio morale, prima di puntare l'indice contro lui, proviamo a ricordare che in quel gesto fisico c'è un significato simbolico suggestivo: stringendo il pugno per indicare l'altro, almeno altre tre dita rimangono rivolte verso di noi, in un implicito atto d'accusa quasi mai immotivato.
«Quando vedo un uomo che sbaglia, mi dico che io pure ho sbagliato; quando vedo un uomo sensuale, mi dico: lo fui anch'io un tempo, e così mi sento affine a ciascuno nel mondo». È sempre Gandhi a parlare in questi che sono stati raccolti come i suoi «pensieri», una serie spesso emozionante di brevi e semplici riflessioni. Qui si mette
a fuoco un vizio comune, quello del giudicare gli altri con ferocia, soprattutto quando si tratta di persone a noi antipatiche o considerate come avversarie. Ci sono talora in noi alcune faziosità nel definire un'altra persona così palesi da renderci persino ridicoli, tanto è il furore e l'eccesso con cui liquidiamo chi ci è di ostacolo o semplicemente ci risulta odioso.
Aveva ragione Gesù quando definiva l'occhio «la lucerna del corpo»: se è offuscato, vede tutto l'orizzonte come tenebroso, ma non perché ogni cosa sia oscura, bensì solo perché la nostra visione è coperta da uno schermo opaco (Matteo 6, 22-23). Ecco, allora, un grande esercizio da compiere sulla scia di un altro appello di Cristo: «Non giudicate e non sarete giudicati, non condannate e non sarete condannati» (Luca 6, 37). E se vediamo nell'altro uno sgorbio morale, prima di puntare l'indice contro lui, proviamo a ricordare che in quel gesto fisico c'è un significato simbolico suggestivo: stringendo il pugno per indicare l'altro, almeno altre tre dita rimangono rivolte verso di noi, in un implicito atto d'accusa quasi mai immotivato.
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