Nell’attuale dibattito sulle riforme istituzionali il tema del sistema elettorale per ora è rimasto piuttosto defilato. Peraltro, già nella passata legislatura sarebbe stato necessario quanto meno un adeguamento, dopo che si era intervenuti con la scure sul numero dei parlamentari. Invece si è andati alle urne come se nulla fosse accaduto. Oggi è tutto sommato comprensibile che, essendo sul tavolo di discussione la stessa forma di governo, la legge che stabilisce le modalità di voto per il Parlamento e il meccanismo di traduzione dei voti in seggi finisca con l’avere un ruolo apparentemente ancillare. Del resto è di palmare evidenza il rapporto funzionale che tale legge deve avere rispetto agli assetti istituzionali del Governo e delle Camere. Eppure, è essa stessa un fattore che ha grande incidenza sul sistema politico. Basti pensare al fatto che la nascita di quella che viene definita Seconda Repubblica è strettamente collegata ai mutamenti del sistema elettorale innescati dai referendum del 1991 e del 1993. Al sistema elettorale, tuttavia, non possono essere attribuiti in modo esclusivo compiti e responsabilità che chiamano in causa anche altri fattori. Molto dipende, per esempio, da come si struttura il sistema dei partiti e da come si organizza l’offerta politica. Sia nel 2018 sia nel 2022, per esempio, si è votato con il cosiddetto Rosatellum. Stesso sistema elettorale, ma nel primo caso l’exploit del M5S ha determinato un assetto sostanzialmente tripolare e una legislatura con tre governi di faticosa gestazione e radicalmente diversi tra loro. Nel secondo, la mancanza di una proposta competitiva sul versante del centro-sinistra e il boom di Fratelli d’Italia hanno creato le condizioni per una maggioranza ben definita in Parlamento e una rapida formazione dell’esecutivo.
I padri costituenti non hanno voluto cristallizzare una specifica formula elettorale, così che il Parlamento può regolare la materia con legge ordinaria. Però la Carta non è muta sull’argomento e la Consulta è stata più volte chiamata a giudicare la legittimità dei sistemi introdotti, enucleando per via argomentativa alcuni criteri di fondo. In particolare, nella sentenza n. 1 del 2014 (poi richiamata dalla n. 35 del 2017) si legge che «agevolare la formazione di una adeguata maggioranza parlamentare, allo scopo di garantire la stabilità del governo del Paese e di rendere più rapido il processo decisionale» costituisce «un obiettivo costituzionalmente legittimo», ma esso dev’essere perseguito con «il minor sacrificio possibile» della rappresentanza democratica.
Nella sentenza del 2017 la Corte ha anche dichiarato incostituzionali le «liste bloccate e lunghe di candidati», con le quali «è in radice esclusa, per la totalità degli eletti, qualunque indicazione di consenso degli elettori», lasciando alle discrezionalità del legislatore la scelta «della più opportuna disciplina per la composizione delle liste e per l’indicazione delle modalità attraverso le quali prevedere che gli elettori esprimano il proprio sostegno ai candidati». Il legislatore per ora se l’è cavata accorciando le liste, ma la sostanza politica del problema resta intatta: nel momento in cui si sottolinea il dovere di rispettare le scelte degli elettori, si potrebbe sommessamente cominciare da qui e dalle pluricandidature dei capilista che rendono aleatorio il rapporto con i territori.
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