Bisogna vederla, quando balla, lei consacrata, con le "sue" ragazze: i corpi cercano di liberarsi dal male, dal dolore, dall'odio, dalle emozioni tossiche.
La "biodanza" che suor Pompea Cornacchia pratica con le migranti è il ballo della vita stessa: liberarsi dagli affanni, ritrovare la speranza. Alle donne in viaggio verso una destinazione sconosciuta testimonia con l'ascolto e la vicinanza che possono ancora sentirsi amate, anche se sono sole, violentate, sfruttate e indesiderate.
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Per gentile concessione di suor Pompea Cornacchia
Lei è una comboniana 55enne nata in Puglia, con i capelli corti sale e pepe e grandi occhiali tondi, uno sguardo vivido e occhi che durante la conversazione via Skype con Avvenire passano dal pianto alla gioia più pura. Suor Cornacchia lavora con altre tre consorelle a Tapachula, una piccola città del Chiapas, nel Messico sudorientale, subito oltre il confine con il Guatemala.
Un paese che suo malgrado si è trovato nell'epicentro della corrente migratoria: periodicamente arrivano migliaia di esseri umani (non solo latini: ci sono intere carovane di africani e asiatici transitati per il Sud America) che sognano di attraversare il continente per arrivare negli Stati Uniti o in Canada. In mezzo a decine di ong, lei fa la sua parte: riparare i cocci delle donne con un approccio psicospirituale, la terapia occupazionale (artigianato e cucina, soprattutto) e appunto la "biodanza".
«Sono arrivata a Tapachula un anno e mezzo fa dopo altre missioni in Ecuador e Colombia. Abbiamo iniziato un programma di emergenza all'interno del centro di accoglienza Betlemme, in una parrocchia, l'abbiamo chiamato Espoir, Speranza. Qui offriamo il pranzo e cose di prima necessità, le donne migranti vengono a farsi la doccia ma l'obiettivo è creare una relazione».
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Per gentile concessione di suor Pompea Cornacchia
Una missione quasi impossibile, quando d'un colpo, come è successo nei giorni scorsi, arriva una carovana di 15mila haitiani. In che stato giungono le donne migranti qui a Tapachula? «Ferite, con uno sguardo triste che ti spezza il cuore. Quasi tutte sono state violentate e maltrattate. Io le ascolto, loro si confidano».
Suor Pompea ha una competenza specifica in accompagnamento psico-spirituale. Quello che fa è stare accanto alle donne, iniziare un percorso di cura e resilienza, offrire una nuova speranza per il tempo che restano nel Chiapas, finché arriva il visto umanitario e possono ripartire verso nord. È così che conosce storie incredibili: «Lucy era scappata da un marito che a Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, la trattava da schiava. Si sentiva dilaniata perché in Africa aveva lasciato due bambini, ma non aveva scelta».
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Per gentile concessione di suor Pompea Cornacchia
Un'altra mamma con la quale suor Pompea ha avviato un percorso terapeutico e spirituale che è durato due mesi è Amar, che arrivava dal Brasile e attraversando il deserto di Panama ha visto morire il più piccolo dei suoi tre figli, 10 anni. «Amar era piena di rabbia, esplodeva per un nonnulla. Pian piano si è confidata e ho capito il perché. Mi diceva: la cosa più terribile è stata lasciare lì il corpo, alle intemperie, non me lo perdonerò mai. L'ho abbracciata forte, lei ha pianto e da allora è come si si fosse sbloccata. È ripartita un po' più serena».
Donna tra le donne più derelitte del mondo: come si sente? «Impotente. La mia preghiera a Dio è di darmi forza e salute. Non è umano quello che devono sopportare queste migranti, mi sento piccola davanti a loro ma capisco anche che la mia presenza è importante perché loro avvertono in me l'amore di Dio e questo fa rifiorire in loro la speranza».