Una donna tra le donne. «Con loro sono me stessa. Ci facciamo carico l'una delle altre. Abbiamo gli stessi sentimenti, le stesse paure. Sono come noi, e per questo non ci fanno paura, anche se loro sono dentro e noi siamo fuori. E questo mi dà ancora più desiderio di amarle». "Loro" sono le detenute del carcere femminile di Rebibbia. Lei è suor Paola Vizzotto: a 81 anni, un giorno a settimana, a causa delle restrizioni dettate dal Covid, e poi ancora la domenica per l'Eucaristia, percorre un chilometro a piedi, poi sale su 3 metropolitane, la C, la A e la B e infine su un autobus per entrare nel penitenziario romano e ascoltarle. Semplicemente ascoltarle, da 16 anni. Senza nemmeno sapere, in tanti casi, perché sono dentro: «Il reato è un problema loro e se devono pagare il conto con la giustizia, noi dobbiamo aiutarle a viverlo positivamente. Io entro in carcere, loro mi sorridono e mi abbracciano come si abbraccia una mamma. Questo mi rende felice, perché significa che il loro cuore è ancora vivo e hanno capito che qualcuno le ama».
Suor Paola non è un'ingenua, ha incontrato il carcere per la prima volta nel 1976 come missionaria dell'Immacolata (Pime), in Camerun: lì c'erano le punizioni corporali, la pena di morte, la convivenza di adulti e ragazzini, sottoposti a violenze ed angherie. Sa che tra coloro che incontra a Rebibbia ci sono donne che hanno commesso reati gravi, sa che ciò che hanno fatto è profondamente sbagliato e cerca di farglielo capire. «Ma loro sanno che con me possono parlare liberamente, che io non le giudico», ripete.
Suor Paola Vizzotto in una foto recente - Per gentile concessione di suor Paola Vizzotto
Poiché anche suor Paola è un po' nomade, ama in particolar modo creare relazioni con le donne Rom, le più discriminate, anche nel carcere. E pure quelle per le quali può davvero fare la differenza. È successo con una madre, che a distanza di anni l'ha ringraziata per averle fatto comprendere il valore e la dignità femminili. «Si è opposta al marito che voleva far sposare la figlia a 14 anni e ora, mi ha raccontato, va tutti i giorni a chiedere la carità per farla studiare». Poi c'è la detenuta che l'aspetta con ansia per mostrarle che ha imparato a scrivere il proprio nome, o quella che le telefona per comunicarle che ha ottenuto il diploma...
Suor Paola racconta la sua missione con una gioia contagiosa, l'età non ha intaccato l'entusiasmo del farsi prossima agli ultimi. «Ho ricevuto tre doni molto grandi: la vita, la fede e il carcere. Sì, nessuno può andare tanti anni in carcere se non ha la vocazione. Lì tocchi davvero la carne sofferente e salvatrice di Cristo. Che segno lascio nella vita delle donne detenute? L'affetto. E la scoperta di possedere dignità e valore e di godere dell'amore di Dio. Sono contenta quando le donne scoprono perché sto accanto a loro: rispetto la loro storia, le sento mie, voglio loro bene. Ascoltandole, tocco con mano sofferenze che io non saprei sostenere: la lontananza dai figli, la mancanza di libertà, la lungaggine della giustizia... È faticoso ascoltarle, liberare il mio cuore per andare loro incontro senza giudizio. A volte è umanamente difficile abbracciare donne che hanno commesso reati molto gravi. Ma in me risuona ciò che Dio ha fatto ad Adamo ed Eva dopo la disobbedienza: ha cucito per loro una tunica di pelle. Ecco – conclude suor Paola – a Dio chiedo di aiutarmi a cucire tuniche di pelle per le donne di Rebibbia».