Mentre festeggia l'esordio di una sua rubrica sul rinnovato settimanale paolino "Credere", in condominio con padre Gaetano Piccolo (entrambi migranti dal web alla carta stampata), Robert Cheaib lascia cadere tra le sue "Briciole di teologia" un videotesto di 90 secondi ( bit.ly/2C7JPKG ) che promette di ragguagliarci sui «veri influencers», precisando che l'ispiratore è il neo-canonizzato John Henry Newman.
Sono fresco di un convegno, organizzato a Bologna dall'Ucsi regionale, che era per metà dedicato allo stesso tema, forte dei contributi di Luigi "Gigio" Rancilio e di don Mauro Leonardi, e mi rallegro della convergenza di vedute. Infatti Rancilio ci ha severamente ammonito sulle ferree e poco vangelo-compatibili logiche dei "veri" influencer, e ci ha raccomandato di non stare in Rete come dei "pavoni", a caccia di consensi, ma di comportarci piuttosto da seminatori digitali ( bit.ly/2PM7isy ) «di parole, opere ed esempi di valore e di spessore anche sui social», mettendo al centro le persone e non i loro like.
Don Leonardi ( bit.ly/33jNQYt ) ha cercato di mostrare che l'ossimoro «prete influencer» si scioglie interpretando «"da prete» quella contaminazione tra pubblico e privato che, a suo dire, è la chiave del successo di un influencer, e poi percorrendo tutti gli interstizi di carità spirituale e materiale attraverso i quali il virtuale può diventare reale. Cheaib, dal canto suo, sintetizza il profilo dell'influencer (nel senso di uno che sa farsi imitare, dice seguendo Newman via san Paolo e san Filippo Neri) in una breve «lista»: «Mettere da parte la formalità; lasciare che l'ascendente (influence) prenda il posto della regola; permettere alla carità di ergersi al posto dell'autorità; attirare così le anime con la bellezza interiore (interior beauty)". Azzardo una sintesi: chi prova a essere attivo in Rete secondo un'ispirazione cristiana è uno, o una, che «sta sui social ma non è dei social».
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