Domenica scorsa è uscito sulle pagine di Agorà un intervento inedito di Giuseppe Bonura sulla critica italiana come «industria del complimento». A un anno dalla sua scomparsa, i lettori hanno avuto modo di ricordare la vivacità intellettuale e l'onestà risentita di chi per anni è stato l'autorevole recensore di narrativa su «Avvenire» e certo uno dei più competenti e attendibili in attività nella nostra letteratura. In quell'intervento Bonura si pronunciava a favore della (sempre più rara) «stroncatura netta, inequivocabile, recisa, rabbiosa». Il primo e unico compito della critica è capire che cos'è un libro e descrivere la mente di un autore. Ma è anche vero che ogni atto critico, se non è routine, nasce da un coinvolgimento emotivo e morale e che non si dà conoscenza se non c'è giudizio. La lettura è un'esperienza. Chi recensisce un libro deve dirci e non nasconderci che esperienza è stata la sua.
D'altra parte, come molta letteratura che invade le librerie non è letteratura, così molta critica che leggiamo sui giornali non è propriamente critica. E' informazione che scivola più o meno apertamente in pubblicità. Nessun recensore che scriva un articolo a settimana è sempre nel pieno possesso della propria più alta coscienza critica. Ma anche quando si fa informazione libraria e cronaca letteraria, non si dovrebbe dimenticare che le bugie non sono ammesse e nel caso che si voglia lodare un amico perché è un amico, è bene dichiarare che si tratta di un amico, in modo che chi ci legge possa fare le sue valutazioni.
Ovviamente l'attività del critico non viene svolta in un vuoto di relazioni personali e sociali: e con la letteratura che si scrive nel presente e nel proprio paese nessuno di noi può avere rapporti troppo distaccati. Capire la contemporaneità è la cosa più naturale e più difficile. Ecco perché non tutti i recensori sono sempre dei critici veri e propri. Ma se il critico è un "poeta dell'interpretazione", può anche sbagliarsi, ma non può mentire.
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