Di questi tempi, pochi giorni dopo la sfida elettorale fra Obama e McCain, con i problemi e le incognite che aspettano la più grande, ricca e potente nazione occidentale, non si può che essere attratti da un libro intitolato L'America e gli americani (Alet). E' una raccolta di saggi di John Steinbeck, scrittore "sociale" che fu amato e famoso fra gli anni trenta e gli anni cinquanta, autore di Uomini e topi, Pian della Tortilla, Furore e La valle dell'Eden. Nella mia, che era una famiglia di operai, Steinbeck, come Jack London e come Gorkij, era considerato un grande scrittore, più o meno come Victor Hugo o Dostoevskij. Gli scrittori che stavano dalla parte dei poveri e dei disperati assetati di speranza, venivano messi tutti sullo stesso piano.
Non leggevo una riga di Steinbeck da non so quanto. Tutto quello che ho letto di lui, l'ho letto prima dei sedici anni, perché dopo aver incontrato Camus, Lorca e Eliot, il californiano Steinbeck lo dimenticai. Ma sono un appassionato dei saggi-ritratto sul proprio popolo e le ultime cento pagine del libro dedicate a definire gli americani, per quanto ovvie, le ho trovate irresistibili. Steinbeck in questo genere letterario non è all'altezza di Orwell, Octavio Paz o Henry Miller. Ma nel corso dell'ultimo secolo in Europa siamo diventati tutti un po' americani e sentire parlare di loro incuriosisce e allarma. Il saggio è stato scritto da Steinbeck nel 1966, due anni prima di morire, è il suo testamento. Gli americani, dice Steinbeck, sono aggressivi e indifesi, pratici e sognatori, puritani in pubblico e libertini in privato. Si indebitano per realizzare il loro sogno più profondo, il sogno di una casa perfetta e ideale, che abbandonano dopo pochi anni. Hanno un talento naturale per le armi da fuoco. Odiano il potere e i politici. Trattano i loro presidenti come idoli e poi come giocattoli da distruggere. Noi con nessun altro popolo della terra abbiamo rapporti altrettanto complicati. Sono i nostri fratelli più giovani, litighiamo con loro ma vogliamo imitarli.
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