Eravamo in ritardo. Sul tabellone di Termini il numero del nostro treno lampeggiava. Mentre camminavo trafelata però li ho visti: due vecchi, molto vecchi, seduti in un angolo su sedie pieghevoli. Entrambi di corporatura monumentale: spalle, busto, mani singolarmente grandi. Imbacuccati con cappotti e sciarpe, come venissero dal gelo. Accanto, una pila di pesanti valigie, quasi si fossero portati tutto ciò che avevano. Il vecchio e la donna, immagino la moglie, sedevano immobili, quasi assopiti. Come non aspettassero nessuno.
Certo venivano da lontano. Dall’Est penso, per foggia e povertà degli abiti. Come usciti da un racconto di Tolstoj. Me li sarei immaginati seduti attorno alla stufa di un’isba, in mezzo alla neve, molto tempo fa. Contadini invecchiati, le mani come badili; e tanti figli, e nipoti e pronipoti, attorno. Invece soli, a Roma. Nessuno ad attenderli. Qualcuno aveva lasciato lì dei panini, ma loro nemmeno li avevano toccati.
Stupefacenti, quei due. Statue, parevano: monumenti a un remoto proletariato rurale. Avrei voluto parlargli - non so in quale lingua. Ma, alla partenza mancavano cinque minuti.
Cosa sarebbe stato in fondo, partire più tardi? E chi erano quelli? Ucraini? In fuga, a ottant’ anni? Chi avrebbe dato loro un letto, quella notte?
Aspetta, mi pareva dicessero, ascolta la nostra storia.
Quanta vita perdiamo, per rispettare gli orari.
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