Sotto maglie e maschere si nasconde un nero nulla
mercoledì 13 dicembre 2017
Eugenio Maria Luppi fa il calciatore. Ha avuto la fortuna di nascere venticinque anni fa in questa parte di mondo, dunque non ha mai conosciuto, se non attraverso racconti, la tragedia della guerra. Questo ragazzo non è un fenomeno, la sua "normale" carriera si sviluppa fra campionati che difficilmente portano alla ribalta sportiva giocando, fino a qualche tempo fa, in seconda categoria dilettanti per i colori del Futa65. Il 12 novembre scorso Luppi e la sua squadra disputano la loro partita di campionato fuori casa. Vanno a Marzabotto, Comune del Bolognese famoso non certo per il calcio. Tanti, infatti, sanno che a Marzabotto nell'arco di sette giorni, tra il 29 settembre e il 5 ottobre 1942, truppe naziste trucidarono 775 esseri umani. Tanti sanno che a Marzabotto i nazisti irruppero in una chiesa dove don Ubaldo Marchioni aveva radunato i fedeli per recitare il rosario e tutti furono sterminati a mitragliate o dilaniati dal lancio di bombe a mano. Tanti sanno che nella frazione di Castellano fu uccisa una mamma insieme ai suoi sette figli e in quella di Tagliadazza fucilate undici donne e otto bambini. Tanti sanno che quei crimini bestiali e quelle disumanità cambiarono per sempre la storia di una comunità che vide ammazzare una media di 110 suoi cittadini al giorno, distrutti ottocento appartamenti, due fabbriche, sette ponti, cinque scuole, nove chiese. Nemmeno quelli che erano già morti furono risparmiati: le truppe naziste trovarono il tempo per devastare anche i cimiteri. Tanti conoscono questa storia di ferocia, dicevo. Non tutti, purtroppo, ma tanti. Fra questi tanti che di Marzabotto conoscono le vicende c'è senza dubbio il venticinquenne calciatore Eugenio Maria Luppi che prima della sua partita, infatti, trova il tempo di infilare sotto la sua maglia da gioco una t-shirt nera della Repubblica di Salò, dotata del necessario optional dell'aquila fascista. Un Luppi, quel giorno evidentemente ispirato, segna un gol fondamentale per la vittoria della sua squadra e festeggia, scimmiottando l'idiota usanza dello sfilarsi la maglia da gioco. Una specie di dedica, insomma. Così mostra a tutti la sua maglietta nera e, per essere proprio certo che il suo messaggio arrivi per bene, accompagna la sua corsa sotto la curva facendo ripetutamente il saluto romano. Sorvolo sulle reazioni dei suoi compagni e dei suoi dirigenti che lo sospendono e prendono le distanze dal gesto, sorvolo sulle dichiarazioni di alcuni esponenti di Forza Nuova, sorvolo sulle sue stesse e infantili scuse, inevitabilmente arrivate via Facebook che suonano come scritte sotto dettatura. Quello su cui non riesco a sorvolare è il fatto che il ragazzo, sospeso dal suo club, trovi immediatamente una nuova collocazione che di fatto è un premio. Lo ingaggia infatti il Borgo Panigale che gioca nel campionato di promozione: un salto verso l'alto (nel giro di pochi giorni) di due categorie. Si stenta perfino a crederlo, invece è proprio così: Eugenio Maria Luppi ha esordito domenica scorsa, con la sua nuova maglia n. 7 e chissà quale t-shirt sotto. Questo mondo ammalato di rabbia porta nelle nostre case, con la stessa inquietante facilità, immagini di gentaglia in anfibi e giubbotto nero che minaccia la redazione di un quotidiano indossando maschere di plastica, skinhead con la faccia di plastica che irrompono in una stanza e leggono comunicati deliranti ai volontari di una associazione che aiuta i migranti, bandiere usate dai neonazisti appese alla finestra di un appartamento di una caserma dei Carabinieri e saluti romani a una partita di calcio. A Marzabotto. Un mondo ammalato di rabbia può spaventare, oppure può richiamare ciascuno di noi al senso del dovere, alla necessità di vigilare perché le aberrazioni di un passato criminale non possano essere scimmiottate da ragazzi che non hanno di meglio da fare, che fanno riferimento a qualcosa che, per loro fortuna, non hanno mai visto, che non conoscono e che si immaginano come una specie di videogioco. In gioco, invece, c'è il futuro di un Paese, non un momento per il quale avere i propri cinque minuti di notorietà. Chiunque abbia a cuore questo Paese, che pare condannato a dover curare per sempre le proprie ferite, faccia nel modo che può e con gli strumenti che ha, il gesto di sfilare la maschera a quei delinquenti che urlano sotto le finestre di Repubblica o la t-shirt a un ragazzino che vergognosamente decide di festeggiare in quel modo un gol. Anche perché (aggiungo per fortuna) sfilate quelle maschere o quella t-shirt sotto non troveremo che il nulla.
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