La guerra è sempre un’esperienza-limite. Quasi un’apocalisse, nel senso di rivelazione del senso profondo della realtà, proprio perché porta all’estremo la condizione umana di fragilità. Franz Rosenzweig, filosofo tedesco, concepì il suo capolavoro, La stella della redenzione, proprio mentre era impegnato, da soldato, nelle trincee della prima guerra mondiale.
Così Phil Klay, nell’avvincente Fine missione (Einaudi) che dà conto dei suoi mesi di marine nella provincia irachena di Anbar, attinge al suo diario di quegli anni per dar conto di una consapevolezza amara e illuminante: «Credevo che nella guerra ci fosse almeno un po’ di nobiltà. So che esiste. Si raccontano tante storie, e alcune devono per forza essere vere. Ma io vedo soprattutto uomini normali che cercano di fare il bene, schiacciati dall’orrore, dall’incapacità di placare la rabbia che provano, dal loro desiderio di essere più forti delle circostanze. Eppure, ho la sensazione che in questo luogo vi sia più santità che in patria, nella nostra patria ingorda, grassa, malata di sesso, consumista e materialista, dove la pigrizia ci impedisce di vedere le nostre colpe. Qui, almeno, Rodriguez ha la decenza di preoccuparsi dell’inferno». Inferno, santità, materialismo: anche sotto le bombe l’Infinito bussa al nostro pensiero.
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