venerdì 28 settembre 2018
Uno dei problemi più impressionanti del nostro Paese è quello dell'assenza o imboscamento dei sindacati dal quadro delle grandi trasformazioni che la nostra società ha vissuto e sta attraversando. Sono stati in passato, penso a Cgil e Cisl, un ago della bilancia fondamentale nei rapporti tra le istituzioni (e diciamo pure con la politica), molto di più, per esempio, di quanto non lo sia stato e continui a esserlo la magistratura. Ma di quest'argomento si parla o si scrive sempre malvolentieri, il tema è effettivamente scabroso e si rischia di sembrare qualunquisti o populisti a parlare dell'inefficienza, o meglio della non-presenza, della assenza o scarsissima presenza del sindacato nei dibattiti fondamentali di oggi, constatando quanto poco essi contino, in confronto al passato, nelle sorti del paese, nelle scelte fondamentali, nella reazione alle mille ingiustizie quotidiane, nell'individuare e indicare prospettive e soluzioni ai grandi problemi che ci affliggono. Si ha anzi, dall'esterno e da profani ma da cittadini comuni e responsabili, l'impressione che essi considerino loro compito esclusivo quello di occuparsi, sindacato per sindacato, specializzazione per specializzazione, unicamente degli interessi dei loro tesserati, settore per settore della nostra economia. Trascurando per esempio, come un tempo non era, quelli dei non iscritti, dei senza-tessera: ieri dei disoccupati e oggi degli immigrati. Funzionano sul piano assistenziale, ma sono privi di identità e di slancio generali, “politici”, perché privi di visione e di progetti che non siano rivolto agli interessi del“particulare”, e hanno così finito per contare ben poco, nel quadro delle nostre esperienze sociali e delle nostre idealità, della nostra vita politica, nella formazione dei più giovani, e ci è oggi difficile perfino aderire alle poche azioni che indicono, solidarizzare per esempio da settore a settore come un tempo avveniva spontaneamente. Mi rendo conto di sapere troppo poco del sindacato di oggi e di come esso funziona - ma anche questo è un segno della loro assenza - e quasi mi vergogno a scrivere queste considerazioni, ma so per certo che questa delusione e questa preoccupazione non sono soltanto mie. Il sindacato è stato ieri una presenza costante e importante nella vita di ogni lavoratore, anzi di ogni cittadino, e ovviamente di ogni militante, e ho forte il ricordo di un sindacato vivo e presente, i cui leader si erano formati quasi sempre dentro le lotte delle categorie professionali di cui facevano parte, venivano dal basso e dall'interno, e se facevano carriera non avveniva per titoli universitari e per abilità interne e impiegatizie. Anche per questo il sindacato riusciva a stimolare e a correggere la politica, anche quella della sua parte, e criticarla, dentro un rapporto dialettico che qualche volta si faceva anche scontro. Si parlò già negli anni sessanta e settanta di una “leva Foa” di laureati in sociologia ed economia, di sindacalisti senza calli alle mani ma che sapevano le lingue e avevano viaggiato; e si sperò che lottando a fianco e in difesa degli operai e dei contadini, degli artigiani e degli impiegati, e attenti alla condizione dei disoccupati e alle lotte dei giovani essi potessero formare una leva nuova, intelligente e partecipe, della nostra “classe dirigente”. Una leva di sindacalisti che sapesse tener meglio testa ai “padroni” e allo Stato anche perché “aveva studiato”... Ma così non è stato: contano poco e se ne accontentano.
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