Lo scorso novembre, a venti giorni dal 7 ottobre in Israele. MM di Milano, linea 5. Il vagone, nel dopopranzo, mezzo vuoto. C’è una madre con due bambini, sui sette otto anni. Stranieri. La madre è bionda, elegante, i bambini sono vestiti bene. Turisti? No. Non sono curiosi, nessuna busta di acquisti. Solo una grossa valigia.
I bambini sembrano molto stanchi. Il più piccolo, abbracciato alla madre, si assopisce. Come non avesse dormito stanotte.
Sono belli, entrambi. Dei colori, però, che non si vedono spesso, da noi. Carnagione mediterranea, ma occhi chiarissimi. Capelli biondi, ricci però come quelli dei bambini neri.
Che singolare mescolanza di etnie. E chissà da dove vengono, così stanchi.
I tre tacciono, mesti. Volto lo sguardo e sento che il figlio maggiore fa una domanda alla mamma. Sussulto: non capisco il significato, ma è ebraico, l’ho sentito spesso a Gerusalemme.
Venti giorni dopo il 7 ottobre, qualcuno che ha parenti in Italia ha mandato i figli lontano da Israele. Quei due, sono degli esuli. Molto più fortunati dei bambini di Gaza, ma esuli. Li hanno portati via. Come generazioni di ebrei alle loro spalle, in quella mescolanza di colori e tratti che racconta quanto, in quel Paese, sia approdata nei decenni gente da ogni dove. Tutti con una storia di persecuzione, vicina o lontana.
Quei due bambini sulla MM5, portati via per paura. Nell’anno 2023, di nuovo.
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