Dalle lettere che si scrissero tra il 1964 e il 1973 lo storico tedesco Joachim Fest e la filosofa Hannah Arendt molta luce può derivare sulla famosa formulazione della Arendt, «la banalità del male» che tante reazioni polemiche ha suscitato, in particolare in Israele. Ci sono possibilità di restare innocenti dentro un sistema totalitario? Ci si domanda. E per compiere il male bisogna essere un assassino o basta essere inserito in un meccanismo omicida senza trovare la forza o la voglia di opporsi? Queste le domande, scaturite dalla Shoah e poi dal processo Eichmann, ma ancora oggi urgenti e brucianti di fronte alla coscienza dell'umanità in tante circostanze e in tante gradazioni del male. Definendo il male come banale, afferma Arendt, non si vuole asserire che tutti siano capaci di diventare degli Eichmann, ma definire degli assassini che non sono mossi da moventi personali, «assassini da scrivania o di massa». Ma con questo non si vuole certo sottovalutarne la gravità o darne una qualunque assoluzione. Questi assassini, ribadisce anzi Hannah Arendt, sono ancora più terribili degli altri perché non hanno nessun rapporto con le loro vittime. Né odio né responsabilità né rimorso, potremmo aggiungere. Solo indifferenza.
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