Correrò il rischio, ne sono consapevole, di essere accusato di voler leggere ogni fatto della settimana sportiva alla ricerca di un significato più ampio. Forse troppo ampio, chissà. Il fatto è che domenica a Interlagos i due piloti della Ferrari, una delle squadre più riconoscibili, amate, seguite del Paese si sono sportivamente comportati in maniera autolesionistica, scontrandosi e mettendosi fuori gioco in un momento, peraltro, non particolarmente entusiasmante dal punto di vista agonistico. Non era, insomma, neppure in gioco una vittoria, un primo posto, un risultato di particolare prestigio. Uscendo dal giudizio (non ho la minima competenza per capire chi sia stato il responsabile dell'incidente) valuto semplicemente che due compagni di scuderia si sono auto-eliminati, riservandosi anche un bel livello di tensione riportato dalle comunicazioni radio tra pilota e muretto che ormai fanno arrivare anche nelle nostre case umori che dovrebbero forse restare un po' più riservati. Certamente ci sono sport in cui si è compagni di squadra, ma contemporaneamente anche avversari: il caso forse più clamoroso fu quello di Giovanna Trillini e Valentina Vezzali che insieme, in azzurro, dominavano il mondo della scherma e che si svegliarono una mattina dell'agosto del 2004, compagne di camera al villaggio olimpico, per andare a tirare l'una contro l'altra per vincere la medaglia d'oro ai Giochi. Altrettanto certamente esistono sport dove essere squadra è necessario per arrivare perfino al proprio obiettivo personale. La pallavolo, per esempio, impone il passaggio per regolamento, per cui senza i propri compagni non sarà mai possibile ottenere un successo. Ce ne se sono altri, meravigliosamente di squadra come il rugby, la pallacanestro, il calcio, la pallanuoto, dove le regole lasciano spazio all'iniziativa del singolo: senza il contributo della propria squadra vincere è quasi impossibile, ma il singolo ha la possibilità di incidere in maniera decisiva sulla prestazione e talvolta il livello di competizione interna sfugge di mano. Il rischio, dicevo all'inizio, è quello di voler interpretare tutto in maniera metaforica. Tuttavia non posso, da uomo di sport, non sottolineare come il senso di identità, l'idea di sentirsi parte di qualcosa di più grande di se stessi, la bellezza del riconoscersi in una squadra, in una maglia, in un colore si stia man mano smarrendo. Non avevamo bisogno dell'incidente fra Seabastian Vettel e Charles Leclerc per accorgerci che la direzione in cui va il mondo è sempre più individualista, solitaria, verrebbe da dire egoistica, ma questo episodio mi permette di rispolverare un concetto che amo raccontare per definire quello sport che piace a me e che (pur rifuggendo dall'idea di una sua banale idealizzazione, perché esiste uno sport fatto bene, ma anche uno fatto male) ha ancora qualcosa da insegnare. È tecnicamente un ossimoro: lo chiamo "egoismo di gruppo". È un momento magico, dunque non frequentissimo, in cui il desiderio del singolo si allinea a quello del collettivo. È un territorio meraviglioso in cui il proprio bene si riconosce e si riflette nel bene dell'intera organizzazione di cui si fa parte. Può succedere in una palestra, in una scuola, in un'impresa, in un ospedale, in una onlus e in qualunque altro luogo in cui gruppi di persone si percepiscono capaci di trasformarsi in squadre e di lavorare, fianco a fianco, per raggiungere un obiettivo comune. E se questo pare essere il momento di "uomini soli al comando", è bello sapere che un modello alternativo esiste, eccome.
© Riproduzione riservata
ARGOMENTI: