«Niente di nuovo sul fronte occidentale», di Erich Maria Remarque, è uno dei rari romanzi che racconti la guerra dalla parte degli sconfitti. Il protagonista, Paul, è uno dei tanti “ragazzi ‘99”, nati cioè nel 1899, mandati al macello negli ultimi due anni dalla Prima Guerra Mondiale, il 1917 e il 1918. Prima ancora che della guerra, Paul è vittima della retorica patriottarda, che è la caricatura del patriottismo, di un professore del liceo che frequenta, imbevuta di richiami a gesta eroiche e di promesse di gloria, ma lontanissima della spaventosa realtà della guerra (una retorica che non si è persa, purtroppo, e ogni giorno ne sentiamo gli echi, declinati in varie forme). Dopo aver visto cadere uno dopo l’altro tutti i suoi amici partiti volontari come lui, anche l’ormai disincantato Paul, due volte tradito, resterà ucciso nell’ultimo, insensato attacco ordinato a pochi minuti dalla fine delle ostilità. Il professore del romanzo non è una comparsa nell’economia del racconto, è il prototipo di tutti gli imbonitori che addormentano il cervello e avvelenano l’anima, è il mentitore che promette allori ma tace la verità, fatta di cadaveri straziati e sangue, e fango. Esorta i suoi studenti a partire volontari per un ideale fittizio, ma non dice loro che in una guerra i soldati sono solo “vuoti a perdere” (o forse oggi qualcuno li definirebbe “carichi residuali”). E soprattutto non dice loro che fare la guerra vuol dire sempre tradire la speranza, e che non c’è guerra senza orrore.
Davvero dovremmo iniziare con lo «smilitarizzare i cuori», come ha detto Francesco una settimana fa nell’omelia della Messa celebrata in Bahrain. Non c’è alternativa, ed è per questo che Gesù chiede ai suoi seguaci «il coraggio di rischiare in qualcosa che sembra apparentemente perdente». Chiede «di rimanere sempre, fedelmente, nell’amore, nonostante tutto, anche dinanzi al male e al nemico. La semplice reazione umana ci inchioda all’ “occhio per occhio, dente per dente”, ma ciò significa farsi giustizia con le stesse armi del male ricevuto. Gesù osa proporci qualcosa di nuovo, di diverso, di impensabile, qualcosa di suo: “Io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra”. Ecco che cosa ci domanda il Signore: non di sognare irenicamente un mondo animato dalla fraternità, ma di impegnarci a partire da noi stessi, cominciando a vivere concretamente e coraggiosamente la fraternità universale, perseverando nel bene anche quando riceviamo il male, spezzando la spirale della vendetta, disarmando la violenza, smilitarizzando il cuore».
E come si può costruire la pace «se a una parola cattiva si risponde con una parola ancora più cattiva, se a uno schiaffo ne segue un altro: no, serve “disinnescare”, spezzare la catena del male, rompere la spirale della violenza, smettere di covare risentimento, finire di lamentarsi e di piangersi addosso». L’invito di Gesù ad amare tutti, ma proprio tutti, è «sorprendente perché dilata le frontiere della legge e del buon senso: già amare il prossimo, amare chi ci è vicino, seppur ragionevole, è faticoso. In generale, è ciò che una comunità o un popolo cercano di fare per conservare la pace al proprio interno: se si appartiene alla stessa famiglia o alla stessa nazione, se si hanno le stesse idee o gli stessi gusti, se si professa lo stesso credo, è normale cercare di aiutarsi e di volersi bene. Ma che cosa succede se chi è lontano si avvicina a noi, se chi è straniero, diverso o di altro credo diventa nostro vicino di casa?». È proprio questa la sfida.
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