Esiste l'«intossicazione digitale»? Come si misura e quali sono i livelli che non si devono superare per non rimanere intossicati?
Prima di provare a rispondere, dobbiamo fermarci un attimo. Tutti noi, già oggi, a seconda dell'età, del tipo di vita, del lavoro che facciamo e dei nostri interessi, abbiamo idee diverse sul valore positivo o negativo del digitale. C'è chi lo ritiene una rovina. Una tossina. Un veleno. E chi, invece, lo considera una sorta di super vitamina capace di migliorare le nostre prestazioni, nel lavoro, nelle relazioni, nella vita di tutti i giorni.
È il solito schema: pessimisti contro ottimisti; (eccessivamente) preoccupati contro (eccessivamente) entusiasti. Ma il digitale è ormai presente nelle nostre vite. Non è una vita a sé. Quindi è profondamente sbagliato cercare di fare finta di niente, negandone o – peggio – demonizzandone l'esistenza.
Per questo dobbiamo provare a sgombrare il campo dai nostri pregiudizi sull'argomento, negativi o positivi che siano. Solo così la domanda sull'«intossicazione digitale» e qualunque ricerca sul tema, potrà esserci davvero utile.
Al momento se su Google si cerca «intossicazione digitale», appaiono articoli e file dedicati all'«avvelenamento digitale». Per ora, computer, smartphone, social e web non c'entrano. Per «avvelenamento digitale» si intende quello da digossina, «un farmaco utilizzato per aumentare la forza e la velocità della contrazione del miocardio ma che può anche ridurre la frequenza sinusale».
Torniamo a ciò che intendiamo noi per «intossicazione digitale». Come riconoscerla? Se è vero che tutto nel digitale è tracciato, è altrettanto vero che un conto è sapere cosa accade ogni minuto su Internet (quante mail vengono mandate, quanti tweet fatti, quanti post creati, quanti video visti, quante canzoni ascoltate... cosa che sappiamo con certezza) e un altro sapere – per esempio – quante mail di lavoro e private
un essere umano può leggere senza sentirsi travolto, con risultati presumibilmente disastrosi sia sulla concentrazione sia sul rendimento. Tanto più che ognuno di noi è diverso e reagisce in maniera diversa.
Però, già adesso, tutti noi sentiamo ogni giorno di più che «è troppo». Che c'è «troppo». Troppe mail, troppe telefonate, troppi sms, troppi WhatsApp, troppe parole inutili e troppe parole importanti.
Persino troppe notizie. Basta toccare lo schermo di uno smartphone per venirne inondati. Non parliamo poi del web, delle app, dei social e delle newsletter. Ci sono news ovunque. Così tante e così spesso che, secondo gli esperti, una notizia importante raggiunge grazie al digitale praticamente tutto il pubblico nell'arco di 2 ore. Perché se non lo fa «direttamente» – attraverso un sito, un'app di notizie o i social – sarà un nostro vicino al ristorante o in coda al supermercato a raccontarcela, informato magari a sua volta da un amico via WhatsApp.
Per noi giornalisti le notizie non finiscono mai. Anzi, ogni giorno ce ne sono molte di più di quelle che riusciamo a raccontare. Quindi, soprattutto nel digitale dove gli spazi sono infiniti, tendiamo a produrre tanto. Tantissimo. Ma commettiamo un errore: perché nel digitale gli spazi non sono infiniti, sembrano infiniti. E ci sono limiti che nessuno può travalicare. Uno è il tempo, l'altro è l'attenzione. Il primo non lo possiamo cambiare, il secondo mi piace considerarlo una sorta di autoprotezione del cervello. Ed è il nostro limite più bombardato ogni giorno (per non dire ogni minuto). Non c'è servizio, negozio, azienda, ambito culturale e sociale, radio, tv e giornale che non ci chieda sempre più attenzione con ogni mezzo, soprattutto digitale. E così siamo tornati all'inizio: quante «dosi» di digitale può tollerare un essere umano, senza rimanerne intossicato? Mentre provate a rispondere, sappiate che se Facebook ci mostrasse ogni volta che lo apriamo tutti i contenuti creati dai nostri amici, ci troveremmo in media da leggere dai 1.500 ai 15.000 post. Troppi. Per chiunque.
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