Nel suo bel libro sul sentimento dell’invidia (È pericoloso essere felici. L’invidia degli dèi in Grecia, Quodlibet, pagine 260, euro 18,00), lo studioso Dino Baldi conduce un’analisi approfondita per sviscerare il moto dell’invidioso, in ogni epoca sempre diffuso, e sempre nocivo, per chi lo prova così come per chi ne è il bersaglio. Primo tassello del saggio di Baldi è un apologo tratto da una delle Storie di Erodoto. Riguarda Policrate, tiranno dell’isola greca di Samo, uomo al quale tutto va bene, cui la sorte molto sorride; per il quale le cose anzi vanno talmente per il verso giusto da fare intervenire il Faraone d’Egitto, suo amico, sentitosi in dovere di metterlo in guardia. Troppa fortuna gli porterà sfortuna, lo ammonisce, perciò consigliando a Policrate di mettere in atto un rituale che lo protegga da una probabile, imminente rovina. Dovrà disfarsi di qualcosa cui tiene molto, così da “riequilibrare” quel suo destino propizio in eccesso. Policrate allora, obbediente e spaventato, getta in mare aperto un suo anello: ma ecco il monile dopo poco gli torna indietro, inghiottito da un pesce pescato da un pescatore suo amico. Passa altro poco tempo, e Policrate muore. L’apologo che Erodoto narra per mostrare i rischi della troppa fortuna (primo tra i quali, l‘essere oggetti di invidia) è più sorprendente ancora se considerato alla luce dell’influenza postuma, di echi riverberati anche a molta distanza di tempo. Persino Oscar Wilde – Baldi racconta – emulò lo stesso rituale messo in atto da Policrate. Successe durante un viaggio in Italia, nella splendida cornice di Sorrento: rapito dalla natura mediterranea lussureggiante e dallo spettacolo di sublime bellezza del golfo e del Vesuvio che gli si apriva allo sguardo, inquietato dall’assoluta completezza di quello stato di felicità (beatitudine, quasi), Oscar Wilde lui anche gettò in mare un anello prezioso che portava al dito, e lo fece ripensando alla storia di Policrate. La troppa felicità ci spaventa: la fortuna, se in eccesso, prima o poi lascia intravedere l’abisso del suo proprio rovescio. Quel che ci spinge a porre rimedio, a mettere un argine a cotanta profusione di buona sorte, è una forma di prudenza che sorge spontanea, contemporaneamente a un’invidia nei nostri stessi confronti che rischia di sfociare nell’autosabotaggio. Così come dovrebbe accadere per l’invidia verso gli altri, tutto sta allora nel fermarsi in tempo. In modo analogo a quel che accadde a Policrate (e a Oscar Wilde) nel momento in cui affidavano ai flutti i loro oggetti preziosi, noi anche dovremmo scongiurare, prima ancora che l’eccesso di fortuna, l’invidia stessa, l’ipotesi di un nostro pensare con frustrazione alla superiore felicità degli altri. Sugli autobus, in certe zone povere del Brasile, anni fa (ogni tanto ci montavo su), incollati ai finestrini vedevo piccoli adesivi rotondi con su scritto: «Se provi invidia, lavora». Ovvero, fermati, ascolta con attenzione quel che senti, guarda a te stesso: lì, in quell’ascolto troverai risposta, rimedio, soluzione. Che riguardi un culmine di felicità nella nostra vita il cui orizzonte ci spaventa, o invece un frustrato e malamente covato desiderio di poter vivere le esistenze altrui, sempre il sentimento dell’invidia è un campanello di allarme, un segnale chiaro. Chiede una battuta d’arresto, una riflessione, azioni che conclamino quello stesso fermarsi. «Se provi invidia, lavora»: liberati di inutili orpelli, di ogni vanità, e ricomincia da te. In tempi come questi, di continua esposizione/esibizione di quanto si ha, si fa, si pensa o si crede di pensare, la forza del gesto di Policrate (e Oscar Wilde) è moltiplicata. Parla chiara.
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