Prima di lasciare l'Afghanistan su un volo umanitario, Shabana Basij-Rasikh ha gettato in una stufa i registri con l'elenco delle studentesse della sua scuola, il primo campus residenziale femminile sorto nel Paese asiatico. Poi ha appiccato il fuoco e ha chiuso la porta dietro di sé. Era il 20 agosto. Sul suo profilo twitter ha pubblicato un breve video: i documenti consumati dalle fiamme, il futuro delle sue studentesse, destinate a far parte della classe dirigente del Paese, incenerito. Shabana ha preso con sé 250 tra alunne, insegnanti, personale scolastico e familiari, è rocambolescamente salita a bordo di un aereo che ha fatto scalo in Qatar e ha accettato la mano tesa del Ruanda. La sua School of leadership (Sola,, che in lingua pashtum significa "pace") si sposta in Africa, dove peraltro è stata accolta con grande calore. Un trasloco, non un addio.
Gli studi non si interrompono, i taleban non l'avranno vinta. «Lo considero un semestre di studio all'estero. Torneremo tutti, appena sarà possibile», promette questa 30enne combattiva, indomita, che nella sua giovane esistenza ha collezionato riconoscimenti e onorificenze.
È la storia che torna indietro e si capovolge: vent'anni fa i taleban furono cacciati dal Paese e i nuovi governanti si accorsero che a migliaia di bambine e ragazzine erano stati cancellati i documenti. Erano invisibili per le anagrafi e per le scuole, e dunque furono invitate in massa a partecipare a un test per valutare l'inserimento scolastico. «Io ero una di quelle bambine», racconta Shabana, che sotto il regime misogino e arretrato dei taleban aveva frequentato scuole segrete, allestite nelle cantine di Kabul.
Dalla "liberazione" del 2002 in poi il suo curriculum scolastico è stato sfolgorante: grazie a un programma per studentesse meritevoli del Dipartimento di Stato americano ha frequentato l'ultimo anno delle superiori nel Wisconsin, e poi il college nel Vermont fino al 2011. Shabana, lineamenti pronunciati, capelli nerissimi e lucidi, era ancora al college quando dagli Stati Uniti raccolse il denaro sufficiente a costruire una scuola per le bambine in un'area rurale dell'Afghanistan. «Era il 2008, c'era una stanza in affitto e quattro studentesse. Io so che è vero: quando educhiamo una ragazza, cambiamo il mondo», dice Shabana.
Da quell'esperienza è nata la Scuola di leadership, di cui oggi è presidente, un modello unico in Afghanistan: un campus dove ogni anno 100 ragazze tra gli 11 e i 19 anni, provenienti da ognuna delle 34 province del Paese, potevano concentrarsi sulla propria formazione, al sicuro da tutto ciò che era pericoloso per una ragazza, dai matrimoni precoci e forzati alle mille pressioni per abbandonare gli studi. Al campus le ragazze seguivano corsi in linea con i programmi nazionali, arricchiti da esperienze e seminari più approfonditi. La retta è coperta da donatori di tutto il mondo.
Un lavoro prezioso, in un Paese che conta 3,7 milioni di bambini, metà del totale – per il 60 per cento femmine – fuori dal sistema educativo. Una situazione destinata ad aggravarsi nel neonato Emirato islamico. Il progetto di Shabana era costruire un edificio nuovo e più confortevole per il campus di Kabul, dove le ragazze potessero apprendere in sicurezza, e crescere per diventare la nuova generazione di leader donne del Paese. Il progetto dovrà attendere. «Guardo le mie studentesse – ha scritto la giovane su Twitter nei giorni scorsi, appena atterrata in Ruanda – e vedo i volti di milioni di ragazze afghane rimaste indietro. Loro non possono partire e noi non possiamo girarci dall'altra parte. Al mondo chiedo: non togliete i vostri occhi dall'Afghanistan».