In questo 2013 cade il centenario della nascita di Vittorio Sereni, ma è anche il trentennale della sua morte, avvenuta l'11 febbraio 1983. L'avevo conosciuto a Milano otto anni prima, nel corso di una di quelle strane riunioni-colazioni della rivista culturale più politicamente compromessa di quegli anni, “Quaderni piacentini”. Una rivista fatta di conversazioni e di vere amicizie prima che di ideologia e di politica.La poesia e la moralità di Sereni erano tutte nell'idea, nel sentimento, in un'utopia dell'amicizia. Leggo sull'ultimo numero dello “Straniero” un saggio di Alberto Rollo, La cultura dei sentimenti, uno dei migliori saggi che io abbia letto su Sereni, che pure ne aveva ispirati altri memorabili: a Mengaldo, Garboli, Fortini, Grazia Cherchi. Per spiegare Sereni, Rollo usa un passo di Walter Benjamin in cui la frase chiave è questa: «L'accordo non violento ha luogo ovunque la cultura dei sentimenti ha messo a disposizione degli esseri umani dei mezzi puri di intesa». Purezza dell'intesa, cultura dei sentimenti, conversazione… Le qualità di Sereni, erano nel suo pudore, nelle sue inibizioni, nel suo stato di attesa ansiosa, nel suo essere sorpreso e strappato a se stesso dalle “visitazioni” della poesia. Non era un poeta volitivo. Non vestiva la divisa di poeta e non viveva da poeta. Veniva dalla guerra, una guerra vergognosa e perduta. Lavorò a lungo come funzionario editoriale. Con Luzi, Bertolucci e Caproni inaugurò una nuova fase della poesia italiana in cui si incontravano i maestri del primo Novecento: Ungaretti, Saba, Montale. Fin dall'inizio e sempre più con il passare degli anni, nel linguaggio di Sereni prevaleva un tono di conversazione monologante, in cui un improvviso lirismo aforistico scavalca una semiprosa quasi stentata. Il suo verso più famoso è una martellante iterazione sul tema della perdita e dell'assenza e bisogna immaginarlo pronunciato a bassa voce, senza enfasi, fra sé e sé: «nulla nessuno in nessun luogo mai».
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