«Il gesto di scrivere è un gesto solitario», scrive Edmond Jabès, aggiungendo che «la scrittura è una scommessa con la solitudine». Sono pensieri che mi toccano e che appartengono ad uno dei testi pieni di illuminazioni di questo scrittore straordinario, fuori da tutti gli schemi, Il libro della sovversione non sospetta, apparso in Francia nel 1982. Scrittore di confine per eccellenza, anche nella forma spezzata e compressa della sua scrittura, Jabès era nato al Cairo, in un Egitto ricco di storia e cultura, dove visse fino a che negli anni Cinquanta fu costretto all'esilio perché ebreo. A Parigi, dove si stabilì, aveva abitato a lungo già negli anni Trenta, in stretti rapporti con scrittori come Caillois, Bounoure, Jacob, Char, Blanchot e tanti altri intellettuali che hanno lasciato un segno importante nella cultura europea. Quando, ormai tanti anni fa, ho scoperto uno dei suoi libri in una traduzione italiana capitatami casualmente fra le mani, ne sono stata folgorata. Nelle sue parole tutto diventava metafora, il deserto, la pagina scritta, il libro. E al tempo stesso, la metafora apriva innanzi al lettore impaziente distese infinite di sabbia, scritture e segni nascosti, spazi senza tempo e senza confine.
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