Stiamo vivendo una rivoluzione: quella informatica. Cominciai a intuirlo più di vent'anni fa, a scuola, quando un mio allievo, al quale avevo assegnato una ricerca su Giuseppe Ungaretti, entrò in classe tutto soddisfatto mettendo in cattedra una risma di fogli che si era stampato dal computer. Gli chiesi se avesse letto quei testi. Il suo sguardo smarrito mi fece capire di no. Gli bastava avermeli consegnati, come avrebbe fatto un cane da riporto col suo cacciatore. Ovviamente ridemmo insieme ai compagni, ma quell'episodio è tornato spesso nella mia memoria alla stregua di un segnale inquietante. Oggi possiamo accedere in tempo reale a informazioni che una volta avremmo dovuto conquistarci a fatica: questo da una parte è un bene, dall'altra no perché ci illude sulla possibilità di imboccare una scorciatoia conoscitiva. Al di là della necessità di ripristinare le gerarchie culturali nel mare magnum del web, distinguendo ciò che è importante da ciò che non lo è; dato per scontato l'obbligo, non sempre rispettato, di verifica delle fonti per evitare le false notizie, resta aperta una questione più profonda legata al senso dell'esperienza: soltanto nel rapporto diretto, psicofisico, non unicamente mentale, con la realtà, facciamo un passo avanti nella comprensione del mondo e di noi stessi.
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