Lo sport, di vertice e di base, naviga da ormai quasi tre anni in una serie di tempeste che ne hanno scosso le fondamenta, colpito da due meteoriti caduti in impressionante sequenza: la pandemia, acceleratore di una serie di fragilità storicamente (ed eroicamente) tenute sotto controllo dal lavoro delle associazioni sportive e dei loro dirigenti e tesserati e il caro energia con il suo devastante impatto sui costi di palestre, impianti sportivi e natatori. Ogni grande momento di crisi, tuttavia, è sempre portatore di discontinuità che, pur senza voler fare la classica retorica del fatto che da ogni problema nasce sempre un’opportunità, ci costringono a guardare allo sport immaginando un modello nuovo. È proprio nell’epicentro del problema che ciascuno di noi ha due scelte: concentrarsi sul problema, perdendo così di vista le soluzioni, oppure guardare oltre il problema. Così, proprio mentre il mondo dello sport si divide in chi continua a considerare un problema l’entrata in vigore della legge di riforma sul lavoro sportivo che finalmente riconosce la dignità di lavoratrici e lavoratori fino a oggi “fantasmi” senza diritti, contributi previdenziali, garanzie, assicurazione contro gli infortuni sul lavoro o possibilità di farsi accendere un mutuo bancario, scoppia un altro caso inquietante, quello delle denunce di alcune ragazze della ginnastica ritmica, riguardanti una serie di violenze psicologiche subite rispetto al proprio corpo e all’alimentazione. La Federginnastica, dopo un incontro con il presidente del Coni Giovanni Malagò e il ministro dello Sport Andrea Abodi, ha deciso di commissariare il centro federale di Desio e di avviare di un’indagine interna della quale attendiamo l’esito. La vicenda, in ogni caso, accende un enorme riflettore sull’altrettanto enorme responsabilità che i tecnici, soprattutto quelli che si occupano di settore giovanili, hanno nei confronti dei loro giovani atleti. Lo sport giovanile non ha bisogno di orchi, ma di allenatori formati certamente da un punto di vista tecnico, ma altrettanto certamente da un punto di vista pedagogico. Per un adolescente la parola, l’opinione, anche solo lo sguardo del proprio allenatore o allenatrice conta spesso più di quello di un genitore. Lo sappiamo, siamo stati tutti adolescenti e alcuni di noi sono, o sono stati, genitori di figli adolescenti. Ogni allenatore, indipendentemente dal talento dei suoi atleti, deve essere consapevole di essere parte integrante di quelle (residue) agenzie educative che restano e svolgere il proprio ruolo con un senso di responsabilità infinito, perché se un tecnico impreparato non impedirà mai a un talento di sbocciare (al peggio ne ritarderà la fioritura) un pessimo allenatore-educatore potrà fargli abbandonare lo sport o, peggio, rovinargli la vita. Uno sguardo e anche solo una battuta sbagliata possono avere effetti terribili su ragazzi e ragazze, magari più fragili. Dunque, fra le tante discontinuità necessarie per costruire un nuovo modello sportivo post-pandemico, oltre al supporto di politiche pubbliche, oltre al necessario e irrimandabile riconoscimento della dignità del lavoro sportivo, occorre considerare necessario formare allenatori con un approccio educativo e pedagogico che abbia la stessa importanza della competenza tecnica. Un modello sempre esisto ed esistente in tanti oratori del nostro Paese che, guarda caso, hanno (anche) sfornato fior di campioni, campionesse e protagonisti della storia sportiva del nostro Paese. Tuttavia, parafrasando la canzone, se uno su mille diventa un campione olimpico, il mondo dello sport e la nostra società hanno un enorme bisogno dei novecentonovantanove che campioni non diventeranno mai.
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