Uno dei pochi settori economicamente vitali, nel mondo di oggi, in grado di attrarre milioni di giovani non solo come occasione di consumo ma anche come occupazione professionale, è quello della cultura – un mondo vario e impressionantemente vasto, sulla cui ricchezza e funzione si riflette troppo poco, e se è così c'è un motivo. In Italia sono 413 mila, secondo i dati ufficiali, coloro che figurano ufficialmente come addetti a Cultura e Spettacolo. In senso stretto e strettissimo. Editoria e festival, cinema e teatro e musica. Questi dati non considerano le persone coinvolte come precari e occasionali, e le attività derivate, e i dipendenti degli assessorati alla cultura, e le società e associazioni che non rientrano specificamente nel ramo – per esempio la pubblicità, o anche, come ci appare ovvio, ogni ordine di scuola pubblica e privata. E i funzionari statali regionali provinciali. E non considerano i giornalisti! E le radio e televisioni! E le grandi agenzie del digitale, i "motori di ricerca", Internet… Eccetera. A occhio, mi dice un amico statistico, la suddetta cifra va almeno triplicata, anche se non esistono studi attendibili che ci dicano quanti sono di fatto a vivere di cultura, di produzione e trasmissione di cultura in tutte le sue forme. (Beninteso, c'è chi ne vive benissimo, e non sono tanti, c'è che ne vive bene o benino, e sono tantissimi, e chi ne vive male o malissimo, tantissimi anche questi.) Vale per l'Italia: quale altra industria, anche la più produttiva, riguarda così tanti dipendenti e un giro d'affari paragonabile a questo? E allargando lo sguardo, quanti vivono dei tanti rami della “cultura” in Europa, negli Usa, in Giappone, nelle nazioni del pianeta “avanzate” o “arretrate” che siano?Di questo nei festival e sui giornali non si parla mai, per le implicazioni che ne scaturirebbero. La più vistosa è certamente d'ordine economico: l'industria della cultura e dello spettacolo, della trasmissione di notizie e conoscenze e fantasie, della pubblicità di merci e di idee per il tramite di parole scritte e dette, di immagini e di suoni è tutt'altro che in crisi e regge il confronto con i rami più “seri” e solidi dell'economia mondiale, anche se ci si ostina a non considerarla primaria e a non considerarla in blocco, come sarebbe giusto, come un settore molto più unitario di quanto non sembri. L'economia ha bisogno dell'industria della cultura e della comunicazione, e di questo viviamo tutti noi che insegniamo, scriviamo, filmiamo, recitiamo, suoniamo, redazioniamo, stampiamo, distribuiamo e via dicendo. Ma ne ha bisogno anche la politica, perché per governare servono sì gli strumenti tradizionali, in uso nelle democrazie e quelli in uso nelle dittature, con le tante varianti intermedie, ma serve anche una cultura che consoli e distragga, che riempia e che illuda, oltre a dar da vivere a un'infinità di persone. I libri e i giornali, gli spettacoli e le tv, le scuole e i festival… Perché non si parla mai di queste loro funzioni primarie, quella economica e quella ideologica, ugualmente indispensabili al sistema in cui e di cui viviamo?
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