Mentre la debolezza e i limiti della letteratura attuale derivano quasi sempre dall'oblio della modernità novecentesca, nelle arti visive troppo spesso non si fa che replicare a vuoto, in peggio e senza effetto, un secolo di provocazioni avanguardiste. La maggioranza degli scrittori attuali sembra credere che romanzo e poesia non abbiano un passato da cui imparare e in cui critica e invenzione erano strettamente connesse: non prevedono più la critica, anzi la temono. Pittori e scultori (ammesso che dipingano e scolpiscano) inventano viceversa prevedendo una critica al loro servizio, che li spieghi e li giustifichi: senza il lavoro di critici “creativi” che inventano interpretazioni poco fondate, i loro prodotti artistici sarebbero incomprensibili e poco giustificati: sarebbe perfino difficile considerarli arte. Si è arrivati così al punto che l'etichetta di arte può essere ed è applicata a oggetti e gesti qualunque. È questo un vecchio problema sempre nuovo che si teme di affrontare perché il rischio sarebbe di mettere in discussione valore e significato di opere ormai celebri e di molti celebrati maestri. Quanto e che cosa resiste al tempo dell'arte cubista, espressionista, futurista, astratta, surrealista? Che cosa dell'action painting, della pop art, dell'arte povera o concettuale, delle installazioni? In una trasmissione della Bbc dedicata a Rothko ho sentito un critico che di fronte a un quadro consistente in una striscia verticale di colore spiegava che quella striscia poteva essere vista come un pilastro su cui poggia il destino dell'umanità. Tutta la genialità di Andy Warhol consisteva nel manipolare foto famose rivendendole come creazione propria a caro prezzo. Joseph Beuys, che esponeva come opera una coperta di lana con sopra un pezzo di lardo, alla domanda sul perché l'avesse fatto rispose: «per aprire una discussione». Un ottimo critico come Tomaso Montanari, autore di magnifiche trasmissioni televisive su Caravaggio e Vermeer, ha scritto recentemente che Guernica di Picasso «è un quadro potente come pochi altri nella storia dell'arte». A vederlo come tale sono stati i critici e gli storici: l'opera, di per sé, può invece anche apparire imbarazzante e goffa nel suo manieristico infantilismo, del tutto inadeguato alla tragedia bellica a cui simbolicamente si riferisce. A forza di spiegare troppo creativamente senza mai giudicare, la critica ha trasformato l'arte in una serie di prodotti senza un pubblico che non sia di professionisti e “addetti ai lavori”. Eugenio Montale lo aveva scritto più di mezzo secolo fa nel suo libro Auto da fé: quando l'opera d'arte si sottrae al giudizio, i critici sono «condannati a capire tutto, il che equivale a non capire niente».
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