sabato 3 aprile 2021
Che i rapporti tra Dante Alighieri e la Chiesa del suo tempo non fossero particolarmente idilliaci è cosa nota. Anzi, si può senz'altro dire che furono turbolenti, e molto. È inutile tentare di riassumere in questo spazio ridotto i perché e i percome di tale dissidio, diciamo semplicemente che Dante era decisamente contro il potere temporale della Chiesa. E che questo tuttavia non ha impedito alla Chiesa di riconoscere la grandezza e la profondità teologica del poeta fiorentino. «Chi può negare – scrisse nel dicembre del 1965 Paolo VI, nel Motu Proprio Altissimi Cantus per il settimo centenario della nascita di Dante, con il quale istituì la Cattedra Dantesca alla Università Cattolica di Milano – che il sentimento religioso, la verità religiosa, l'anelito del finito verso l'Infinito siano stati e sempre siano sorgente d'acqua, che alta vena preme di poesia? Non è forse questa la sua forma più alta e più pura? Quando col suo linguaggio che le appartiene – per cui preferisce al parlare il canto, all'argomentazione il dipingere, alla perorazione lo scolpire – la poesia esprime l'esperienza mistica, la psicologia della grazia, l'estasi, e si eleva alla Suprema Bellezza, al Bene e al Vero che trascende ogni pensiero, all'ineffabile, alla "eterna luce che, vista, sola e sempre amore accende", allora essa diventa un dono magnifico della bontà di Dio, diventa un riflesso della Sua Gloria».
La lettera di Montini si inseriva nel «solco tracciato dal Nostro Predecessore Benedetto XV, che, compiendosi il sesto secolo della morte di Dante Alighieri, volle inviare una Epistola Enciclica, In praeclara summorum, per tributare un atto di omaggio al Poeta, che non solo renda a lui gloria in questa circostanza, che nel corso del tempo si iscrive e dal corso del tempo è presto travolta, ma quasi la perpetui, più che un muto e freddo monumento di pietra o di bronzo, e la tramuti in sorgente perennemente zampillante in suo onore e in beneficio di giovani spiriti, che alla sua scuola si susseguano e che, fatti alunni di tanto Maestro, siano resi idonei di illustrare la sua memoria e la sua opera». E oggi, nel settimo centenario della morte di Dante, a pubblicare una sua lettera apostolica, Candor lucis aeternae, per mettere in evidenza come, in questo particolare momento storico, «segnato da molte ombre, da situazioni che degradano l'umanità, da una mancanza di fiducia e di prospettive per il futuro, la figura di Dante, testimone del desiderio umano di felicità, può ancora donarci parole ed esempi che danno slancio al nostro cammino. Può aiutarci ad avanzare con serenità e coraggio nel pellegrinaggio della vita e della fede che tutti siamo chiamati a compiere». Per Francesco, l'opera di Dante è «una miniera quasi infinita di conoscenze, di esperienze, di considerazioni in ogni ambito della ricerca umana: la ricchezza di figure, di narrazioni, di simboli, di immagini suggestive e attraenti che Dante ci propone suscita certamente ammirazione, meraviglia, gratitudine. In lui possiamo quasi intravedere un precursore della nostra cultura multimediale». Il Poeta, secondo Bergoglio, «non ci chiede, oggi, di essere semplicemente letto, commentato, studiato, analizzato. Ci chiede piuttosto di essere ascoltato, di essere in certo qual modo imitato, di farci suoi compagni di viaggio, perché anche oggi egli vuole mostrarci quale sia l'itinerario verso la felicità, la via retta per vivere pienamente la nostra umanità, superando le selve oscure in cui perdiamo l'orientamento e la dignità». Chi ha letto la Divina Commedia sa quanto ciò sia vero. Chi non l'ha letta, o l'ha dimenticata, farebbe bene a riprenderla in mano.
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