La montagna di Giovanni, nome in codice Nero: "leggere" il 25 aprile
venerdì 23 aprile 2021

Ci sono luoghi che custodiscono nomi e storie di un passato recente che va ricordato e onorato perché il nostro mondo libero e democratico è nato anche lì. Luoghi come la montagna fatta di boschi ricchi di rifugi e sentieri stretti e impervi dove hanno camminato i partigiani, giovani uomini e donne, spesso poco più che ragazzi determinati a lottare per un ideale, per non piegarsi alla logica violenta fascista e a combattere contro l’occupazione nazista. Ma fare memoria, raccontare quei tempi e quei protagonisti quando i testimoni non ci sono più, tocca a chi quelle storie e quei nomi li ha ereditati, come per un debito di riconoscenza, un risarcimento al coraggio di chi ha scelto da che parte stare, sapendo di mettere in gioco la vita. E così ha fatto Sonia Maria Luce Possentini, illustratrice e scrittrice, tornando in un inverno gelido sull’Appennino reggiano come a un appuntamento doveroso nei luoghi in cui a combattere tra i partigiani della Brigata Garibaldi c’era anche Giovanni Possentini, detto il Nero. Uno zio mai conosciuto ma la cui memoria è rimasta viva attraverso i racconti di famiglia.

Un ribelle il Nero, deciso a difendere il sogno della libertà a tutti i costi e morto per le torture delle squadracce fasciste a vent’anni, con l’orgoglio di non aver tradito i compagni e senza vedere la Liberazione in cui aveva creduto. Nome di battaglia Nero (Edizioni Rrose Sélavy 14 euro) è la sua storia, raccontata attraverso le emozioni che nascono da uno sguardo perso tra sentieri e colline, da parole che evocano coraggio, vitalità e morte affiancata da immagini di una poesia malinconica che commuove. Così come tocca il cuore quella copertina dove impavido sorride al mondo un gruppo di giovanissimi partigiani. Nomi in codici Saetta, Lupo, Fulmine, Tina, Achille, Ribelle… La nostra meglio gioventù. Dai 13 anni

Lidia, nome di battaglia “Bruna”, un’arma non l’avrebbe mai usata ma nei panni della staffetta partigiana bombe e munizioni le trasportava volando in bicicletta, rischiando ogni volta la vita. Gastone, “Il Biondino” non digerì mai la cacciata da scuola con le leggi razziali del suo compagno David, ebreo. Le ingiustizie non le sopportava e dopo l’8 settembre decise di diventare partigiano. Primo, alias Pineo, cominciò da piccolo, con le armi per i partigiani che sua mamma gli faceva nascondere nella cartella. Era solo un bambino quando tra i partigiani in una imboscata ha perso un fratello, ha visto uccidere compagni, e dai fascisti è stato violentemente picchiato.

A Milano, al binario 21, andava a raccogliere i bigliettini che i deportati ebrei lasciavano cadere dai treni per poi portare qualche notizia ai parenti. La Resistenza di Luciana è iniziata all’età di otto anni quando si ribellò alla maestra fascista che aveva pesantemente mortificato Debora, la sua compagna di banco ebrea. Nel giro di pochi anni ha scelto di diventare staffetta partigiana per le Brigate Garibaldi con il nome di Luce. Sono solo alcune delle tante testimonianze raccolte nel libro Noi ragazzi della libertà (Feltrinelli; 14 euro), riduzione per i ragazzi di “Noi Partigiani”, un progetto nato con la raccolta di oltre cinquecento video-interviste a partigiane e partigiani promosse dall'ANPI per la composizione del Memoriale della Resistenza Italiana , coordinate dai giornalisti Gad Lerner e Laura Gnocchi. Un archivio della memoria con le voci dei protagonisti – partigiani, spiegano Lerner e Gnocchi, è il contrario di neutrali - che, in quei venti mesi dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945, hanno scelto da che parte stare. Uomini e donne oggi tra i 90 e i cento anni che con la loro Resistenza hanno posto le basi per la nascita dell’Italia libera e democratica. Dai 14 anni

Aldo e Sergio sono stati amici d’infanzia. Altruista e generoso il primo, timido e vittima designata del bullo di paese il secondo. Crescendo le loro strade si sono poi allontanate. Aldo è andato in montagna a combattere con i partigiani, Sergio è diventato capostazione ma si è messo con i fascisti, nella squadra di quel brutto figuro che da bambino lo bullizzava. Il destino ha invece avvicinato i figli di quei padri che la Storia ha separato. È l’estate del ’43 quando Agostino e Stefano passeggiando lungo la ferrovia s’imbattono nei carri bestiame da cui gli ebrei diretti ai campi di sterminio lanciano biglietti dai vagoni perché qualcuno portasse notizie sulla loro sorte ai propri famigliari. I due amici non capiscono bene cosa stia succedendo ma decidono di seguire una pista che conduce alla casa abitata solo da una ragazzina muta e impaurita, ovviamente ebrea, che vuole seguirli.

Agostino e Stefano, non senza inquietudine nascondono Erica in un capanno nel bosco, passando con lei interi pomeriggi e scoprendo il suo eccezionale talento di pittrice. I tempi però sono abbastanza orribili da mescolare drammaticamente le carte e combinare incontri e scontri fatali tra gli adulti che mettono i bambini di fronte a eventi a cui nessuno dovrebbe mai assistere. Impossibile raccontare oltre per non bruciare i colpi di scena. Fabrizio Altieri, che ha già affrontato l’ambientazione della seconda Guerra Mondiale per “L’uomo dei treni” e “Ridere come gli uomini”, torna nella Toscana occupata dai nazisti, con gli anglo-americani in risalita lungo la penisola, per raccontare in "Volevo solo dipingere i girasoli" (Il Battello a Vapore, 15,68 euro) pur con parole lievi storie di guerra, di violenze e paure che inevitabilmente coinvolgono i bambini, costretti a crescere in fretta osservando il mondo a adulto macinato dentro una grande follia collettiva. E ancora storie di amicizia e solidarietà che la tragedia della guerra mette alla prova, spesso rendendole più autentiche. E regalandocele come una speranza dentro tanto odio. Dai 13 anni

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