Eravamo i primi ad arrivare al mattino, il cielo chiaro, gli ombrelloni ancora chiusi. Sulla sabbia lisciata dello stabilimento si disegnavano le nostre orme: le mie e quelle dei tre, piccole, in fila indiana. In spalla portavo una rete stracarica: pale, setacci, secchielli. Guardavo i figli mentre, seri, intenti, si mettevano a scavare, agli ordini del fratello maggiore. Volevo giocare anch'io. Mi diverto davvero, mi dicevo innalzando torri, meravigliata.
Riportarli a casa, mettere l'acqua sul fuoco e stendere gli asciugamani, al prato. Un'ora dopo li ritiravo annusando sapone di Marsiglia e sole, puro profumo d'estate.
I tre, sazi, già addormentati. Dalle persiane la luce filtrava dorata, nell'ora del solleone. In quella penombra mi fermavo. Mi sembrava d'essere nata per stare con i miei figli. Ne avrei voluti altri tre, ora. Fare la giornalista, l'inviato, viaggiare? «Non restare a casa, non farti imbrogliare», mi ripeteva sempre mia madre.
Avevo ubbidito. Cent'anni prima forse sarei stata un'arzdora, le padrone delle cascine romagnole: avrei badato a figli, nipoti, galline e vitelli, sgobbando dall'alba, come le mie trisnonne. Il sospetto molesto che sarei stata più felice in una vita nemmeno ipotizzata. In una scelta inconcepibile per noi, le ragazze della generazione liberata.
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