Di Roberto Roversi, nato a Bologna nel 1923, poeta e scrittore di cui ogni tanto si perde traccia, l'editore Sossella ha pubblicato quest'anno un volume antologico imponente, esauriente, a cura di Marco Giovenale (Tre poesie e alcune prose, testi 1959-2004, pp. 574, euro 15). Nella sua introduzione il curatore comincia così: «È solo apparente il paradosso che vorrebbe Roberto Roversi scrittore defilato e appartato e insieme tra i più autorevoli, ascoltati, attivi e dunque presenti - dal dopoguerra a oggi. Si può semmai osservare che precisamente la sua determinazione nell'evitare lo spettacolo della letteratura, nel rifiutare ruoli anche latamente istituzionali, nel negarsi a premi e rassegne, e alle letture pubbliche, come alle lusinghe dell'editoria delle matte tirature, ha avuto anzi da decenni lo statuto di un esempio».
Per una rubrica «minima», la citazione è un po' lunga. Ma era difficile riassumere l'elenco che fa Marco Giovenale di tutte le cose «evitate» da Roversi. Direi che qui il verbo evitare è meglio che il verbo rifiutare. Le poesie, i poemetti, le prose di Roversi sono l'esempio di una letteratura che ha «evitato» molte cose per lui superflue, che si è spogliata di ornamenti e additivi. È una letteratura, in versi e in prosa, priva sia di eccitanti che di tranquillanti. La coscienza morale e letteraria di Roversi si presenta disarmata e nuda. La sua denuncia dei mali culturali e sociali usa i procedimenti più elementari e onesti: la «descrizione in atto» e la «registrazione di eventi». C'è in Roversi un rifiuto della letteratura per amore della verità letteraria, un rifiuto che si esprime per sottrazione di artifici. La sua non è una poesia festiva, ma feriale. Poesia per tutti i giorni, per i giorni in cui si lavora: e ci ricorda che il nostro modo di vivere deve scontare il suo peccato originale, deve scontare il fatto che lo dimentichiamo.
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