Per mestiere ho cercato decine di persone. Per raccontarle, per ottenere buone risposte a domande che speravo sembrassero intelligenti. Ottavio Missoni, quello dei maglioni, mi disse che per vestirsi male non serve seguire la moda, però aiuta. Roberto Baggio, quello del pallone, mi raccontò che era terrorizzato di smettere di giocare perché poi avrebbe dovuto pagare da solo le bollette del gas e del telefono, e non lo aveva mai fatto. Luca De Meo, quello delle auto, mi spiegò che la Fiat Sedici si chiamava così grazie a suo figlio di 7 anni che gli ricordò che la vettura in questione era una 4x4, cioè 16. Non era vero probabilmente, ma era bello crederci. Alle Olimpiadi di Sydney, dopo che Audley Harrison gli aveva sfasciato la faccia sul ring, chiesi a Paolo Vidoz se ne valeva la pena. È vita prendere cazzotti e dire che va bene così? «Quelli sul naso fanno un male bestiale, quelli al mento ti spengono la luce», mi spiegò. Perché allora? «Perché prima di fare la boxe ho lavorato in fabbrica, costruivo freni. Ho tanti amici che ancora lo fanno. Solo quello. È vita la loro? Io voglio continuare così: allenarmi, sputare sangue, non essere un ingranaggio. Sarà un brutto mestiere la boxe, ma quando il guantone arriva sullo zigomo, lo senti. Fa male, ma lo senti. Ed è un modo per capire che sei vivo…». Vinse una medaglia in quei Giochi. Rossa, come il sangue.
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