L’uomo che corre vede il bambino, il bambino vede l’uomo che corre. Niente di strano, neppure il fatto che tutto avvenga in un aeroporto affollato, com’erano affollati gli aeroporti prima che la sciagura si abbattesse sulla Terra. Niente di strano, non fosse che l’uomo ricorda benissimo di quando, da bambino, ha visto un uomo correre in un aeroporto. La spiegazione sta nel più classico dei paradossi spazio-temporali: ogni escursione nel passato compromette il futuro. L’estenuato antieroe James Cole (interpretato da Bruce Willis) farebbe volentieri a meno di tante scorribande nel tempo, ma tornare alle origini del contagio è l’unico modo per contrastare la pandemia che ha decimato il genere umano, costringendo i sopravvissuti a rifugiarsi sottoterra. L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam (1995) è ancora oggi un film tanto inquietante quanto preveggente. La trama è stratificata e complessa, eppure non c’è spettatore che non si stupisca nell’istante in cui il protagonista riconosce sé stesso nel bambino dal quale è osservato durante la fuga. Non è soltanto il disvelarsi di un meccanismo narrativo, ma il compiersi di un destino. “Prima” e “dopo” perdono di significato e ci si ritrova in uno sguardo, che è poi l’unico luogo nel quale gli esseri umani possano davvero ritrovarsi.
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