L'individuazione dei candidati a sindaco nelle grandi città – si voterà nel prossimo autunno – è uno dei problemi che impegnano in modo più pressante i partiti in questa fase politica. Se ne parla da mesi, a dire il vero, ma è nelle ultime settimane che la questione è diventata prioritaria, anche perché l'impresa si sta rivelando persino più complessa di quanto fosse già ragionevole prevedere, e non soltanto per le difficoltà connesse con le alleanze in atto o da costruire. A fronte di non poche autocandidature in ordine sparso, hanno fatto discutere i dinieghi opposti da personalità di primo piano – talvolta con precedenti rilevanti da "primi cittadini" – alle reiterate offerte dei partiti. Si è cominciato a parlare di crisi della figura del sindaco, soprattutto nei grandi centri. Un processo collegato al più generale problema della creazione di una nuova classe dirigente e dello scarso radicamento sociale dei partiti, ma che presenta dei caratteri specifici. Tagli alle risorse e grandi deficit da gestire; eccesso di vincoli burocratici e moltiplicazione del "rischio giudiziario"; retribuzioni del tutto inadeguate rispetto ai compiti e alle responsabilità: sono questi i motivi principali che rendono sempre meno attrattiva la carica di sindaco, almeno stando alle testimonianze dei diretti interessati, in carica o ex. Probabilmente, però, c'è anche dell'altro e bisogna andarlo a cercare sul terreno istituzionale. Quando con la legge 81 del 25 marzo 1993 venne introdotta l'elezione diretta del sindaco questa riforma si collocava nel cuore delle grandi trasformazioni avviate con il referendum sulla preferenza unica nel 1991. Pochi giorni dopo il varo della legge, il 18 aprile 1993, si sarebbero svolti alcuni referendum, tra cui quello sul Senato, che di lì a breve avrebbe imposto l'adozione di un sistema elettorale prevalentemente maggioritario. Con l'elezione diretta si aprì quella "stagione dei sindaci" che rappresentò un tentativo di risposta al crollo del sistema dei partiti provocato da Tangentopoli. Ma il tentativo, per quanto carico di aspettative, non fu in grado di arginare lo scollamento tra ceto politico e cittadini, e la dinamica di personalizzazione della competizione elettorale innescata dalla riforma ebbe nel tempo esiti contraddittori. Ai fini del nostro discorso preme soprattutto ricordare che sei anni dopo, nel 1999, vide la luce l'elezione diretta dei presidenti delle giunte regionali. Rafforzata a stretto giro, nel 2001, dalla riforma del titolo V della Costituzione, con un'eclatante espansione dei poteri delle Regioni anche in ambito legislativo. I presidenti delle giunte regionali divennero presto "governatori", ben prima che le problematiche emerse con la pandemia rivelassero le lacune e le ambiguità di quella riforma incompiuta. Tant'è, ma le parole sono rivelatrici e finora non è stato ancora messo abbastanza a fuoco il nesso tra l'ipertrofia politica e lessicale dei presidenti delle Regioni e il progressivo declino della figura dei sindaci. Non è affatto certo che il Paese abbia guadagnato nello scambio, e tuttavia nessuno può realisticamente pensare che si possa fare marcia indietro. Però tornare a rispettare e valorizzare maggiormente il livello istituzionale più vicino ai cittadini potrebbe non essere una cattiva idea.
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