Non so che cosa ci sia accaduto in quanto civiltà, ma la verità è che le buone notizie ci imbarazzano e annoiano, al punto che quasi evitiamo di parlarne, mentre quelle cattive provocano una curiosità virale, un'eccitazione, un interesse raddoppiato. Non esiste patologia peggiore di questo appassire dell'anima, di questo sguardo pieno di preconcetti che poi si fa amaro, di questo giudizio che si lascia catturare dal difetto e dal peso dell'imperfezione e poi non vola, poi ignora che cosa sia la leggerezza. Non c'è esercizio più sterilizzante di questa sorta di risentimento espresso come anatema riguardo alla vita, di questo totalitarismo del piagnisteo che, senza rendercene conto, ci asfissia, di questa incapacità di rompere con l'ingranaggio della maledizione a tutto e a tutti al quale nemmeno noi sfuggiamo.
Eppure, riconoscere il bene, cercarlo ostinatamente e costruirlo ogni giorno è la nostra vocazione primordiale. Dare notizia del bene e divulgarlo realizza la nostra missione di fedeltà alla vita. Solo così si risveglia la coscienza che ogni essere umano è portatore autorizzato dell'immagine e somiglianza di Dio. E solo questo è il modo di rendere giustizia a quello stupefacente miracolo che è essere vivi. Noi mettiamo troppo l'accento sulla comprensione razionale, ma la ragione a sé stante è clamorosamente insufficiente a interpretare l'esistenza. La ragione ha bisogno, molto spesso, di essere completata dall'ordine del cuore.
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