È un dato incontrovertibile che dalle urne sia uscita un’indicazione chiara sulla futura maggioranza di governo. Ma questo non basta per affermare che il sistema elettorale noto come Rosatellum, criticatissimo alla vigilia, in fin dei conti abbia funzionato. Innanzitutto, bisognerebbe ricordare che la governabilità è sicuramente un obiettivo di rilievo costituzionale, ma non è un valore assoluto e non può essere l’unico criterio per valutare la bontà di una legge elettorale. Ciò premesso in linea teorica, è una considerazione di fatto a relativizzare fortemente il ruolo del Rosatellum. L’esito univoco del voto è dovuto soprattutto a una competizione che ha visto in campo una sola coalizione definibile realmente come tale. Tant’è vero che i sondaggi avevano pronosticato concordemente e con largo anticipo un esito di questo tipo e l’unico elemento di incertezza, a ben vedere, ha riguardato fino all’ultimo solo la misura del successo dello schieramento predestinato. A fare la differenza rispetto al 2018 – quando si è votato con la medesima legge ma con esiti del tutto diversi in termini di articolazione della rappresentanza – è stato il modo in cui il sistema dei partiti si è presentato di fronte agli elettori, oltre ovviamente alle scelte di questi ultimi che sono il centro di tutto ma sono inevitabilmente condizionate dall’offerta politica reale. Si sceglie tra quel che c’è concretamente, non in astratto. Hanno influito poi anche fattori di tipo istituzionale. Il minor numero di seggi da assegnare ha dato ulteriore spinta agli effetti disproporzionali del sistema di voto e la parificazione del corpo elettorale di Camera e Senato ha giovato alla configurazione di maggioranze omogenee nei due rami del Parlamento, com’era negli intenti della riforma. Peraltro, il Rosatellum si è confermato come un sistema che non consente agli elettori di scegliere le persone chiamate a rappresentarli, ma solo i partiti o gli schieramenti. Il che non è poco con quello che si vede in giro per il mondo (anche senza allontanarsi troppo). Ma è difficile non pensare che almeno una quota dell’astensionismo record che si è registrato non sia da ricollegare ai limiti della legge. Non è mancato neanche il temuto “effetto flipper”. Voti espressi in una regione che hanno contribuito a eleggere parlamentari dall’altra parte d’Italia. La confusione che si è avuta per alcuni giorni dopo la chiusura delle urne nella fase di identificazione dei candidati effettivamente eletti è emblematica dei difetti del sistema in vigore. La componente maggioritaria del Rosatellum (che interessa i 3/8 dei seggi) è stata comunque decisiva nel trasformare la maggioranza relativa di consensi ottenuta dalla coalizione vincente in una netta maggioranza di seggi in Parlamento. Meloni e alleati hanno superato anche quella soglia del 40% dei voti validi che in diverso contesto la Corte costituzionale ha valutato come requisito “non manifestamente irragionevole” per attribuire un premio di maggioranza (era il 2017 e si trattava dell’Italicum). Che governino, dunque, grazie alle regole della democrazia rappresentativa. Ma senza dimenticare che circa tre elettori su quattro hanno votato per altri partiti o non hanno votato.
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