L'ingiustizia è di questa terra. Almeno una volta l'abbiamo patita tutti, e senza risarcimenti. Se ripenso a quel torto che ho subito — sul lavoro —, brucia ancora. Avevo una ventina d'anni, carattere ribelle, sana e robusta costituzione, la vita davanti. Quando ne hai dai cinquanta in su, i tempi di recupero si riducono. Certe storie di cronaca, sbattute in prima pagina. Poi si scopre, magari dopo anni, che non c'entravi niente, e ciao. Intanto però ci hai fatto, come si dice, una malattia. L'ingiustizia fa ammalare, ci vuole una grande anima per resistere. Sapere che quello che ti è stato tolto non ti sarà restituito e andare avanti. Resistere alle ingiustizie non è sempre sinonimo di lotta. Spesso la lotta è chiaramente destinata all'insuccesso, è paradossalmente passiva e ci inchioda all'ingiustizia. Serve piuttosto pazienza, che è un atteggiamento attivo e amplia l'anima. È darsi il tempo di cercare un senso a ciò che al momento sembra non averne: il bilancio, allora, potrebbe essere assai diverso. Respirare. Pazienza, dice Rainer Maria Rilke, è saper resistere «fiducioso ai grandi venti di primavera, senza temere che l'estate possa non venire. L'estate viene». E senza perdere la capacità di riconoscerli, quei venti impetuosi e ingiusti, ogni refolo che spira in qualunque parte del mondo, sapendo trovare e offrire riparo. Riconosco di non esserne capace.
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