In Italia, tutte le volte in cui si verifica un evento che cambia o sembra cambiare gli equilibri politici si ritorna a parlare di riforma elettorale. È una specialità nostrana che, come l'alto ritmo di ricambio dei governi, non trova riscontro nella prassi della maggior parte dei Paesi europei. In questo caso l'innesco è stato l'esito delle elezioni comunali, anche se poi la prospettiva ravvicinata del voto per il Quirinale ha rapidamente spostato il baricentro del dibattito. Entrambi i temi, peraltro, pur così eterogenei, intercettano profondamente le strategie dei partiti, in particolare per quanto riguarda la ricerca delle alleanze, al punto che risulta difficile non ipotizzare un legame tra la sorte di un'eventuale riforma elettorale e l'andamento delle trattative per il Colle.
Il passaggio delle comunali ci ricorda come la legge sull'elezione diretta dei sindaci risalga all'ormai lontano 1993. In quasi trent'anni nessuno ha messo in discussione quel sistema, a differenza di quanto è accaduto sul versante delle regole per l'elezione dei parlamentari, soggette com'è noto a ripetute modifiche di varia qualità, alcune effettivamente realizzate e altre solo tentate. Certo, si tratta di livelli oggettivamente diversi. Il successo e la longevità della legge elettorale dei Comuni, però, dipendono in buona misura dal fatto che essa fu varata all'interno di una riforma organica, intervenendo sull'assetto istituzionale e non solo sul sistema elettorale. È un'astrazione, infatti, pensare che si possano avere governi stabili oppure scelti direttamente dai cittadini facendo leva soltanto sulla legge elettorale, senza modificare la Costituzione su punti-chiave come - per esempio - il rapporto fiduciario con il Parlamento o i poteri del presidente della Repubblica (che poi questo sia auspicabile o no è un'altra storia). Su questo equivoco sono scivolate prima o poi tutte le soluzioni finora adottate. Anche perché bisogna tener conto di una terza variabile: il sistema dei partiti, il cui funzionamento è ovviamente condizionato dagli altri due fattori, ma a sua volta li condiziona. Di fronte a una scomposizione e ricomposizione del sistema dei partiti in corrispondenza di rilevanti e repentine oscillazioni dell'opinione pubblica, non ci sono leggi elettorali maggioritarie che tengano. Lo dimostrano la vicenda e soprattutto la fine della breve stagione del bipolarismo, quella dei governi Berlusconi e Prodi, ma lo attesta anche l'esperienza della legislatura in corso, quella segnata dagli esiti del voto con il Rosatellum nelle elezioni del marzo 2018, ovviamente al netto dell'impatto della pandemia.
Nella situazione politico-sociale in cui si trova il Paese bisogna domandarsi con lucidità, senza pregiudizi ideologici ed esclusivi tornaconti di parte, se sia realistico e utile puntare a forzare le alleanze in coalizioni destinate a non durare o se non convenga invece accompagnare i processi in corso qualificando e allo stesso tempo razionalizzando la rappresentanza, che poi è quanto sarebbe necessario anche per bilanciare gli effetti distorsivi del taglio dei parlamentari. È una domanda, non un'affermazione, ma merita di essere presa sul serio, tanto più di fronte all'avanzare dell'astensionismo svuota-urne.
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