Nella pianura nebbiosa fra Legnago e Verona ho visitato un centro di pronta accoglienza, come ce ne sono tanti nel nostro Paese, spesso fuori dal cono di luce dei riflettori, dove avvengono sperimentazioni originali in grado di mantenere accesa la speranza nei confronti dell'essere umano. Per farlo bisogna rischiare, ma quasi sempre i risultati ci incoraggiano a proseguire. Mi piace indicare un caso che, in particolare, mi ha colpito: mettere insieme immigrati e disabili. C'era una coppia di persone speciali, chiamiamole così, marito e moglie, segnati dalla malattia, come spesso avviene, sia dal punto di vista psichico sia da quello fisico, le quali abitavano accanto ad alcune giovani africane giunte da poco in Italia dopo aver subito violenze d'ogni tipo: queste ultime stavano rifacendosi il trucco, pronte a ripartire, nonostante tutto, verso il futuro. I diversamente abili, come si usa definirli, le fissavano incantati, quasi avessero di fronte uno spettacolo teatrale. Ecco, ho detto a me stesso, entrambe queste fragilità possono ricavare alimento l'una dall'altra. Poi c'è una questione ulteriore: noi vediamo la loro amicizia e possiamo trarne profitto. Io, ad esempio, ho trovato conferma di quel che avevo intuito: non soltanto i deboli hanno bisogno dei forti. Vale anche il contrario.
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