È giustamente di Massimo Onofri, teorico della recensione, il saggio che introduce i microarticoli scritti da Giovanni Raboni per il "Corriere della sera" dal 1998 al 2003. Con il titolo Il libro del giorno, li pubblica ora in volume la Fondazione del quotidiano milanese (pp. 222, euro 10). Anche per me, come per Onofri, libri del genere hanno un'attrattiva, un magnetismo particolare. In poche righe (meno di due paginette) il critico deve concentrare e miniaturizzare un convincente, chiaro, originale, accessibile discorso su autori come Dickens o Defoe, Garboli o Savinio, Turghenev o Voltaire, Kafka o Apuleio. Scorrendo l'indice (più di 80 pezzi) vedo che Raboni non manca di affrontare perfino Shakespeare e Omero nello stesso numero di righe con cui parla di Paolo Mauri, Bartolo Cattafi, Antonio Porta, Giosue Bonfanti.
Il paradosso è che quando un vero critico si mette totalmente al servizio del lettore e sembra castigare se stesso, può succedere che dia il meglio di sé. Nel testo autoriflessivo che conclude il libro, Raboni dice: «Il recensore non deve fare sfoggio del proprio talento stilistico o, come si tende a dire oggi con una parola che detesto, della propria creatività». Ma nonostante l'umiltà programmatica della prosa critica di Raboni, è proprio la sua straordinaria perizia stilistica di poeta ciò che lo aiuta di più. Il poeta fa economia di parole, punta all'essenziale. Distribuisce i significati primari, secondari e concomitanti di parola in parola, di sillaba in sillaba, in ogni minimo movimento sintattico. Raboni aveva un genio speciale nel risparmio di energie mentali e verbali, nonché nel creare una dinamica formale che era altrettanto istintiva che perfetta. Non metteva in moto idee e argomenti se non per un uso istantaneo e sorprendente. Come i gatti, Raboni, senza sforzo, cadeva sempre in piedi: pura precisione e musica onnipresente della semplice prosa. Se sbagliò in altro, Raboni nello stile non sbagliò mai.
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