Abbiamo regalato una chitarra a Camara. Adesso lui sta cercando un accordo per suonare la canzone dei villaggi bombardati rievocando le notti insonni trascorse dentro i tubi d'alluminio nelle periferie delle metropoli africane da cui proviene. Me lo immagino il pomeriggio nella stanzetta dove abita al centro di pronta accoglienza, nello strapiombo dei suoi diciassette anni, seduto sul bordo del lettino, mentre accenna alla serenata dei distacchi o prova il concerto delle infedeltà. Assetato di speranza. Carico di futuro. Pericolosamente libero. Alla ricerca di un senso sul quale puntare tutte le carte.
Vorrei salire sulla giostra dei monelli scalpitanti che in questo momento Camara rappresenta. La masnada degli adolescenti ribelli richiamati dalla sua musica. Gli stessi che, prima di raggiungere l'Europa, sono sfuggiti alle imboscate. Hanno conosciuto l'inganno, sopportato il freddo, scalato le montagne, aggirato le frontiere, attraversato le paludi, sfidato le intemperie, lottato contro i draghi. Sono loro a farci capire che la Terra ha la febbre alta. E noi, mentre ascoltiamo la loro voce forgiata nel deserto, cosa dovremmo fare? Risanare le piaghe. Cucire gli strappi. Asciugare le lacrime. Legare il tempo allo spazio. I sogni alla realtà. La giovinezza all'età adulta.
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