E poi ci sono quelli che tornano indietro, un po’ sconfitti, un po’ vittoriosi: Said, con le basette brizzolate e gli occhiali appannati, dopo una vita trascorsa da operaio specializzato a Brescia e Piacenza, ha deciso di riprendere a fare il taxista, come iniziò da giovane. Stavolta però l’automobile è di sua proprietà. A sessant’anni si è risposato e ha avuto un altro figlio. Una famiglia trascorsa resta alle spalle, forse non ha resistito alla sua assenza; un’altra si sta affacciando all’orizzonte non più infinito. Me lo racconta guidando serafico lungo i viali di Rabat, al volante della Mercedes scassata. La stella rossa del Marocco sventola sulle bandiere. Siamo diretti verso i bastioni della città vecchia dove ci accolgono nugoli di ragazzini. Mi lascia nei pressi della casa in cui ho preso dimora, ma il giorno dopo, girando nella medina gremita di gente, lo rivedo per caso. Mi saluta quasi fossi un parente forse perché gli ricordo il Paese in cui si è formato. Accanto a lui sorride l’ultimo nato: un frugoletto curioso che osserva incantato la mia pelle bianca. Lo prendo in braccio e mentre facciamo le feste guardo in alto nell’azzurro perfetto, che a me pare anodizzato, la teoria di terrazze e antenne paraboliche dove i gatti regnano sovrani fra la biancheria appesa ad asciugare
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