Seydou e Moussa, due adolescenti senegalesi, lasciano Dakar e, attraverso un lungo viaggio della speranza, tentano di raggiungere l’Italia. È la trama di tante storie crudelmente vere, ma anche quella dell’opera cinematografica di Matteo Garrone, Io capitano, candidato al premio Oscar come miglior film straniero. Garrone, nella notte delle stelle di Hollywood, non è riuscito a portare in Italia la statuetta tanto ambita e non è mia intenzione aprire qui una discussione sul tema dei viaggi della speranza, della ferocia subita da chi decide di affrontarli, del Mediterraneo come gigantesco cimitero liquido e neppure sul valore artistico del film di Garrone. Sono tutte riflessioni che meritano, anzi: necessitano, di molto più tempo, attenzione e cura di quanto io possa fare in questo spazio. Voglio concentrarmi su un solo dettaglio: Seydou e Moussa, per tutta la durata del film, indossano maglie di squadre di calcio. Non importa quali club rappresentino, anzi spesso cambiano: squadre spagnole, italiane, inglesi, ma sempre maglie di squadre di calcio. Come facilmente immaginabile, non è un dress code o una scelta di marketing, piuttosto la rappresentazione perfetta della realtà. Se guardiamo una qualsiasi fotografia che arriva dalle troppe zone di guerra, dai campi di accoglienza, dai barconi su cui galleggiano sogni, o forse utopie, di tanta umanità disperata, vediamo sempre almeno una persona che indossa una maglia di una squadra di calcio. Il motivo? Il calcio rappresenta il linguaggio più universale che esista. In questo mondo lacerato, arrabbiato, confuso, lo sport è capace di arrivare, senza alcuna mediazione, letteralmente in ogni angolo di mondo, di tenere insieme, e in qualche modo far sognare, con la stessa passione e con la stessa intensità, il diseredato come il milionario. Quando vedo quelle maglie, magari scolorite o lise, ma vestite con orgoglio da persone costrette a lottare in quel modo con il quotidiano, mi vengono sempre in mente due cose, che sono le stesse due cose che ho pensato guardando Seydou e Moussa con addosso le loro magliette di calcio. La prima cosa è che quelle magliette portano stampato sulle spalle il cognome del calciatore che ne è proprietario. La seconda è l’enorme responsabilità che il proprietario di quel cognome porta con sé, il privilegio e la responsabilità di disporre di una piattaforma universale, di poter arrivare, letteralmente ovunque, con un’idea, un messaggio, un’opinione. Troppo spesso, invece, i grandi campioni sportivi preferiscono non esprimersi, tacere, qualche volta fischiettare di fronte ai grandi temi sociali. Prevale la logica del “pensare a giocare”, del parlare il meno possibile, del tirarsi fuori dalle opinioni spinose. Credo, tuttavia, che parte dell’essere campioni sia quella di sapersi esprimere e, quando serve, schierare. Sogno un mondo dove i campioni sportivi siano capaci di esercitare la prerogativa che Nelson Mandela (come non ricordarlo quando indossò la maglietta della nazionale di rugby sudafricana) così descriveva: «Lo sport ha il potere di ispirare. Ha il potere di unire le persone come poche altre cose riescono a fare. Parla ai giovani in una lingua che essi comprendono. Lo sport può creare speranza là dove prima c’era solo disperazione. Ha più potere dei governi nel rompere le barriere razziali. Irride ogni tipo di discriminazione».
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