Su “Il Lavoro” di Genova, la domenica di Pasqua del 1930 Giovanni Ansaldo, giornalista già nel pieno di una carriera brillante (per quanto politicamente “a zig zag”, tra gli anni Venti e gli anni Sessanta) dedicò alla torta pasqualina un articolo che contiene in alcuni passaggi «similitudini e legami tra il piatto pasquale, la narrazione evangelica e addirittura la liturgia dell'epoca». Le riporta Lucia Graziano entro la sua «collaborazione gastro-cattolica» con Michela di “Mani di pasta frolla”: l'una, che si definisce «cathofoodblogger», scova le ricette legate alle festività religiose e ai santi ( bit.ly/2PSVN4O ), l'altra, su “Una penna spuntata” ( bit.ly/3wrktSH ), racconta la storia e la natura di tali legami. Di questa torta salata rinviene le prime tracce sulla tavola cinquecentesca di papa Pio V, quando si chiamava gattafura o torta alla genovese. Poi sparì dai banchetti più importanti, ma si radicò nella tradizione popolare di Genova come uno dei piatti tipici del giorno di Pasqua, assumendone il nome. Al punto che, «come accade spesso con molti piatti legati alle feste religiose, nulla è lasciato al caso nella preparazione della specialità». A ben vedere, quell'articolo di novantuno anni, riletto da Lucia Graziano, gioca su allegorie che sono, probabilmente, più negli occhi di chi racconta che nelle mani di chi fa: la pasta messa a riposo tra due teli come il corpo di Cristo dopo la sepoltura; la spennellata d'olio prima di infornare come una sacra unzione; le erbette recise che, nel ripieno, risorgono a vita nuova; il giallo delle uova sode come l'oro che dopo la Quaresima tornava a splendere nelle chiese. A noi moderni, che se vogliamo preparare una torta pasqualina digitiamo due parole su Google, e se poi ci viene male la ordiniamo già fatta su JustEat, rimane la testimonianza che in un tempo non lontano «si viveva in un mondo pieno di simboli in cui ogni cosa, “per speculum et in aenigmate” (“come in uno specchio, in maniera confusa” 1Cor 13,12 – ndr), rimandava a una verità più grande».
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