Ricordate il capolavoro della nostra staffetta 4x100 ai Giochi Olimpici di Tokyo, il 6 agosto 2021? C’è un dettaglio, in quella gara, che vale la pena di mettere a fuoco. È il ventottesimo secondo quando il terzo frazionista azzurro, “Fausto” Desalu, dopo aver dipinto una curva perfetta come una pennellata di Giotto, mette il testimone nella mano sinistra di Filippo Tortu. E urla. Urla con tutta la forza che in corpo. Urla così forte che Tortu sembra spinto da un uragano alle sue spalle. «Erano le mie ultime energie, le ho date a lui», dirà Desalu. «Quell’urlo lo sento ancora tutte le notti, in sogno», dichiarerà Tortu, mesi dopo la gara. In quell’urlo, intenso come quello dipinto da Edvard Munch, c’è tutta la storia di un ragazzo classe 1994, nato a Castelmaggiore da padre e madre nigeriani e cresciuto a Breda Cisoni, in provincia di Mantova, nel bel mezzo delle Pianura Padana. Un’infanzia complicata visto che il padre lo abbandona dopo appena due anni per tornare in Nigeria e mamma Veronica è costretta a crescerlo, tra tanti sacrifici, da sola. Il campione olimpico “Fausto” Desalu è il testimonial vivente di quei tantissimi ragazzi italiani di seconda generazione che, fino ai diciotto anni, non possono rappresentare il nostro Paese in nessuna competizione internazionale, perché la legge impedisce loro di ottenere il passaporto italiano. Sono circa 800mila le ragazze e i ragazzi nati in Italia in questa condizione: magari hanno la pelle di sfumature diverse di colore, ma frequentano le nostre scuole, parlano con le nostre inflessioni dialettali, vanno alle feste e fanno sport con i nostri figli. Così può succedere, come abbiamo recentemente visto
accadere con Mateo Retegui, che un calciatore possa vestire la maglia azzurra, non avendo mai messo piede in Italia e con la necessità di un traduttore per le interviste, in virtù dello ius sanguinis, ovvero disporre di un avo italiano nel proprio albero genealogico, ragazze e ragazzi nati in Italia che conoscono perfettamente la nostra lingua, le nostre tradizioni, la nostra cultura, devono aspettare fino ai diciotto anni quando inizia l’iter (nel caso di Desalu servirono pochi giorni dopo il compleanno, ma di solito è molto lungo) per potersi vedere assegnato il nostro passaporto. Un’ingiustizia, nulla di più, nulla di meno. Sia chiaro: nulla contro Mateo Retegui, né contro la scelta di Roberto Mancini. Entrambi esercitano un legittimo diritto e fanno benissimo, ci mancherebbe. Tuttavia, proprio perché parliamo di diritto, non si può non far notare l’incongruenza con la realtà. Così come è chiaro che non può essere il talento l’acceleratore dell’ottenimento di un diritto. Fra i tanti italiani di seconda generazione ci sono talenti sportivi (e, chissà, nella matematica, nelle scienze, nella musica, nell’arte) così come ragazzi che il proprio talento non l’hanno ancora trovato. Non può e non deve esserci alcuna differenza. Ecco perché l’urlo di Desalu ci aiuta a ricordare come il nostro Paese debba ancora fare ancora un passo in avanti in termini di giustizia sociale, per mettere tutti i nostri cittadini e cittadine, in modo universale, di fronte alla possibilità di accedere, indipendentemente dal fatto di poterselo permettere o del talento che è stato loro donato, di accedere al diritto di cittadinanza e a tutti gli altri loro diritti, compreso quello allo sport.
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