Il successo di un film astuto quanto mediocre, The square, del regista svedese Ruben Östlund – Palma d'oro all'ultimo festival di Cannes e che si appresta, secondo tutte le previsioni, a fare incetta di premi europei e statunitensi – dà molto da pensare. Vi si narra di un cinico direttore di un museo d'arte moderna, delle sue trovate e delle istallazioni e degli eventi che quel museo propone, che si vogliono tutte e tutti altamente provocatori nei confronti del gusto borghese corrente. È piaciuto, questo film, anche a persone insospettabili, ma che mi sembra abbiano una concezione povera e riduttiva di cosa dovrebbe e potrebbe essere oggi l'arte. Quel film critica dal di dentro il meccanismo delle trovate, e la voga dell'eccesso che sconcerta, nati soprattutto perché di un prodotto si parli molto, perché scandalizzi i benpensanti, perché se ne parli tanto. Ogni mese un presunto choc mediatico, ma che in definitiva non incide mai in niente se non nelle varianti e negli aggiornamenti di un gusto facilmente sollecitabile e manipolabile. Questo sta accadendo, in modi ovviamente diversi, anche in altri campi, per esempio all'interno dell'università con la recente moda dei saggi che parlano male della cultura (ma è ben raro che se la piglino con l'università! ma forse arriverà anche questo, e servirà ai provocatori per conquistarsi una cattedra). I loro autori si vogliono super-critici, rivoluzionari a parole, ma lo fanno dall'interno delle istituzioni della cultura le più massicce e responsabili (l'università, ma anche il giornalismo e l'editoria libraria), e a volte se la pigliano direttamente con il pubblico per il suo conformismo, per i suoi pregiudizi – gli spettatori, i lettori, gli ascoltatori, che forse è giusto vedere non solo come complici dello status quo ma anche come vittime dei manipolatori di idee e modelli di vita, di cultura. Prendersela con loro è più facile che prendersela con coloro che non gli danno ciò di cui avrebbero bisogno – il ragionamento, la dimostrazione – e vogliono invece manovrarli e compiacerli. Non aiutarli a sapere, a guardare, a pensare. Nascono così i saggi e gli spettacoli contro “la gente” e contro “il sistema” fatti da chi mira a farsi conoscere, a vendere, cavalcando la tigre di una presunta diversità e radicalità. Non c'è niente di radicale in The square e in centinaia di opere e saggi dello stesso stampo, e sappiamo da sempre che “il sistema” può tradurre in merce qualsiasi cosa. Se serve a far soldi, va bene anche la provocazione più ardita, la critica più esplosiva, debitamente spettacolare. E agli artisti e ai saggisti questo serve per farsi conoscere e farsi strada. È questo certamente l'aspetto più equivoco, per non dire il più odioso, della produzione culturale e artistica contemporanea. Tanti anni fa Fortini scrisse che era dovere degli intellettuali «sputare nel piatto in cui si mangia», ma un giovane collaboratore del “manifesto” precocemente scomparso, Maurizio Flores, gli rispose che però si potrebbe anche, e sarebbe più morale e più lodevole, praticare qualche sciopero della fame, tenersi lontani da certi mercati e da certi festini, operare tra pochi e per pochi quando per parlare ai più diventa necessario partecipare alla grande recita di una cultura compromessa e addomesticata, e che è tale anche quando finge di non esserlo.
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