Salt Lake City, nello Utah, sembra disegnata col pennello e ha un fascino stranissimo coi suoi templi, le sue guglie, i suoi grattacieli stagliati come sentinelle a oltre milleduecento metri d’altitudine in mezzo al deserto. Si percepisce una presenza rigorosa nell’aria: è la monade mormonica che non esitò a entrare in contrasto con l’Unione degli Stati pur di poter continuare a praticare i propri riti. Giro come un lupo solitario in questa città geometrica e intransigente, perfetto contraltare di Las Vegas aperta ventiquattr’ore al giorno. Qui invece ogni attività finisce alle 17.30, dopo le strade si spopolano. D’estate trionfa il caldo secco che non fa sudare ma spezza il respiro. Dal tardo pomeriggio regnano i barboni che escono come mentecatti dalle loro tane per chiedere l’elemosina ai rari passanti, visto quanto sia difficile camminare in uno spazio tanto esteso. Ne ricordo uno di nome James: me lo disse lui, sorridendo a fatica fra i denti guasti. Di sera colpisce la selvaggia bellezza del circondario: le montagne assorbono come spugne gli ancora potenti raggi del sole. È una luce intensa, diversa da quella mediterranea, che non ho mai più visto. Solida, quasi fosse marmo, senza dolcezze, né mediazioni. Un sogno di rinnovamento in cemento armato sull’Interstate numero 15
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