Io non ricordo un Avvento come questo che si prepara. Chi ha più di ottant’anni ne ha visti di ben peggiori, certo: di guerra, di fame, di attesa di padri dal fronte. Ma, nata alla fine degli anni ’50, ho aperto gli occhi su un mondo in pace, con le aule piene di bambini, la fame sconosciuta, e già Vespe e Fiat, per le strade di Milano. E un Natale come questo proprio non l’ho mai visto, in Italia.
L’altra notte dalla Russia hanno lanciato sull’Ucraina il missile balistico ipersonico Oreshnik. Non è la prima volta che Mosca lancia vettori in grado di portare testate nucleari, ma questo è un modello più potente. Viaggia a 12mila km orari e può colpire a 6mila km di distanza. Due conti: Parigi è a 2.800 km da Mosca, Roma anche di meno. Certo, ci rassicurano gli esperti, l’intento non è di colpirci, ma di farci sapere che è possibile farlo. Come un nemico che ci punti addosso un mitra: solo per dirci che potrebbe sparare – se non stiamo attenti, se non assecondiamo il suo gioco.
Lo strano è che fra noi non se ne parla molto. Anche i media mi pare si soffermino più volentieri sulla cronaca nera, o sul voto in Emilia e Umbria. Il voto regionale è importante. Io però guardo stranita i grandi sorrisi di Schlein e alleati, mentre muri di guerra ci si alzano attorno.
Ci diciamo che, tanto, non possiamo farci niente. Che possiamo solo sperare. Possiamo, chi crede, pregare. E forse c’è gente che in questi giorni prega molto. Non lo vediamo, non è dato di saperlo. Ciò che vediamo invece è il consueto rito del Black Friday: lunghe code dall’alba, là dove vendono un iPhone 16 scontato, o tv a 50 pollici sottocosto. Levarsi alle cinque per mettersi in fila, magari a zero gradi, e già dietro a centinaia di altri. In molti Paesi disgraziati, a partire dall’Ucraina e da Gaza, lo si fa per il pane. Da noi, per smartphone da mille euro. Non c’è qualcosa che non va nel nostro cuore?
Anche questo mi preoccupa, e più di quei missili che forse non verranno mai lanciati. Là dove è il vostro tesoro è il vostro cuore, è scritto. Ma se il cuore di tanti è davanti alle saracinesche di Mediaworld o Unieuro, mentre l’Europa attorno trema come non accadeva da 80 anni, la percezione della realtà non mi pare adeguata.
Penso anche a quella preside di una scuola pugliese che all’Open day ha avuto il coraggio di dire ciò che vede fra i suoi alunni quattordicenni: chi opprime i compagni più deboli, chi fotografa l’auto, e la targa, del professore che rincasa. Non un singolo caso, ma tanti. Come figli cui nessuno ha insegnato niente. Quando leggo, e succede spesso, di violenze di bande di ragazzini a una coetanea, o magari contro un inerme clochard, mi viene perfino da domandarmi se non ci stiamo disfacendo con le nostre mani, senza bisogno di Oreshnik.
Grazie a Dio ci sono ancora i bambini, benché non molti: i bambini piccoli, ignari di tutto. Personalmente ammetto che sono anche loro la mia forza in questo Avvento: quello sguardo fiducioso di chi si aspetta che gli si voglia bene, e lo si protegga. Credo che la denatalità ci faccia male anche in questo senso: in molte case non ci sono figli o nipoti, e quanto mancano, quegli occhi candidi. Nemmeno per strada li guardano più molto, i passanti, i bambini, almeno a Milano. Troppi pensieri, troppa solitudine; e poi, aleggia il dubbio, sarà davvero cosa buona venire al mondo, in questo buio 2024?
Eppure, per i tanti che non hanno più fede o l’hanno dimenticata, gli occhi dei bambini sono uno dei segni rimasti, per ricordarsi: ricordarsi di chi siamo, di quale desiderio di felicità portiamo scritto dentro. Cerchiamo almeno gli occhi dei bambini, quelli proprio piccoli, gli atterrati da poco. Gli occhi dei figli nostri e degli altri, con la loro silenziosa domanda di bene, dentro paura e dimenticanza ci ricordino quale Figlio, e con quale promessa arriva.
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